Di gestione sostenibile delle attività portuali si è parlato lo scorso 24 gennaio, ad Ancona, nel corso dello specifico seminario nel quale sono state messe a confronto le esperienze del Sistema Nazionale delle Agenzie ambientali.
Tema complesso, sia per la complessità del sistema portuale in sé, sia per la farraginosità della normativa tecnica di riferimento. Non è raro, infatti, che le Agenzie regionali per l’ambiente vengano percepite come un ostacolo burocratico alla realizzazione degli interventi indispensabili per lo sviluppo del settore.
Nella sua relazione, il DG di Arpa Marche, padrone di casa, ha individuato le principali fonti di pressioni generate nelle aree portuali:
“traffico e movimentazione di mezzi sia in ambito marino che sulla terraferma connessi entrambi alle attività di trasporto e carico/scarico di merci e passeggeri;
“produzione di rifiuti, intesa in senso generale: non solo produzione di rifiuti in senso stretto (come gli assimilabili agli urbani prodotti dalle navi), ma anche relativamente agli scarichi di sostanze inquinanti emessi a mare, e a terra”;
“dragaggi, i quali provocano tendenzialmente due tipi di danni: uno di natura tipicamente ambientale/naturalistico, con l’alterazione dei fondali e dell’habitat marino; uno legato alla ulteriore produzione di rifiuti, a volte anche classificati come tossici e nocivi;
“altre attività legate al porto: cantieristica navale (costruzione e manutenzione), produzione industriale (a partire da quella della trasformazione dei prodotti della pesca) e logistica (con particolare riferimento allo stoccaggio di merci pericolose).
“I potenziali impatti ambientali generati dalle attività connesse ai porti possono determinare principalmente:
“l’inquinamento atmosferico, sia su scala globale, legato in larga parte al traffico connesso, sia in scala locale, dove alle emissioni dei mezzi di trasporto (natale e su ruote) si somma il contributo delle polveri immesse in aria dalla movimentazione di particolari tipologie di merci in transito (carbone, materiali ferrosi, materiali da costruzione) e alle quali è associata anche la generazione di cattivi odori;
“l’inquinamento del mare, da distinguere tra impatto di superficie, dovuto principalmente agli sversamenti e alla movimentazione dei mezzi, e impatti profondi sui fondali e sull’habitat marino in genere;
“l’uso e l’inquinamento del suolo, da intendersi nella triplice accezione di: consumo di suolo necessario per la costruzione del porto, contaminazione del suolo causata dalle attività portuali di terra e impatto negativo sul paesaggio;
“l’inquinamento acustico, generato da tutte le attività portuali, sia di mare che di terra, e dalle attività di trasporto connesse alla presenza del porto;
“gli incidenti, da intendere sia come collisioni tra mezzi navali (e più in generale di tutti i mezzi di trasporto legati al porto), sia come incidenti ambientali (sversamenti a mare e a terra di sostanze inquinanti) che come eventi gravi associati allo stoccaggio di merci pericolose”.
Certamente vero, ma messa così, tra inquinamento atmosferico su scala globale, impatto negativo sul paesaggio, danni da dragaggi e incidenti, meglio chiuderli i porti.
Pragmaticamente, avremmo pensato che una concreta risposta ai problemi di sostenibilità ambientale potesse essere, per esempio, il bunkeraggio Gnl, l’elettrificazione delle banchine per traghetti, la misurazione della qualità dell’aria, ma nel quadro descritto appaiono miseramente insufficienti.
Summa theologica. Parlare di tutto e non fare niente.