foto da L’Osservatore Romano
Per quanto possa sembrare difficile a credersi, esiste un’oasi di pace in un deserto di guerra. Si chiama Wahat al-Salam–Neve Shalom, un pacifico villaggio a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme, concepito immediatamente dopo la guerra dei Sei Giorni da Bruno Hassar, un frate Domenicano nato in Egitto da famiglia ebrea.
Un’idea semplice quanto efficace: perché non creare un villaggio in Israele dove ebrei, musulmani e cristiani potrebbero vivere in armonia? Già, perché no… Detto fatto, insieme ad Anne Le Meignen, cittadina francese di religione ebraica, frate Hassar negli anni ‘70 mise in piedi un villaggio cooperativo dal nome bilingue “Wahat-al Salam-Neve Shalom” che significa, appunto, Oasi di Pace.
Ora, mezzo secolo dopo, i fondatori non sono più tra noi, ma sogno e visione continuano. In questo villaggio risiedono una settantina di famiglie, tutte determinate a eliminare i semi dell’odio. Mentre poco lontano si combatte, si soffre e si muore, gli abitanti del villaggio non soltanto proseguono il cammino intrapreso, ma offrono al mondo un esempio di convivenza pacifica proprio nel momento in cui ne abbiamo maggior necessità.
Le ultime due settimane, marcate dal massacro di Hamas, dalla gigantesca crisi umanitaria e dalla ritorsione israeliana su Gaza, di tutta evidenza sono state una prova difficilissima per la comunità dell’Oasi della Pace. Quasi ogni famiglia, a partire dal 7 ottobre ha perso parenti, amici, conoscenti o colleghi di lavoro. Molti abitanti del villaggio lavorano nell’ambito degli aiuti umanitari sia nella striscia di Gaza che in Israele.
Malgrado la spirale di violenza tutto intorno, il villaggio non intende assolutamente abbandonare i propri obiettivi di pace. Al contrario: «Riaffermiamo la nostra convinzione che soltanto una vera pace, l’uguaglianza dei diritti fondamentali della persona per ogni essere umano possono garantire la perennità della nostra esistenza in questa regione», ha postato il villaggio sui media.
Già, perché lavorare alla pace è più che un voto per Wahat al-Salam–Neve Shalom: è un lavoro quotidiano che, da cinquant’anni, sta dando risultati forieri di grande ispirazione.
«Allorché Ebrei e Musulmani si riuniscono, lavorano fianco a fianco e vivono insieme, creano il proprio miracolo. Oasi di Pace è un miracolo che merita il sostegno di tutti noi, perché incarna le nostre più grandi speranze» disse anni fa Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986.
Come facciamo ad avere tante teorie, da una parte e dall’altra, per spiegare guerre e violenze tutt’attorno Wahat al-Salam–Neve Shalom, e magari non abbiamo una teoria per spiegare la pace in questo villaggio? Forse una parte della risposta sta nel fatto che un processo di vera pace è qualcosa di invisibile e d’immateriale. A pensarci bene, purtroppo, è più facile spiegare la distruzione che una ricostruzione. O forse è perché l’arte della pace ci appare come una visione idealistica e asettica, un’arte che appartiene agli “spalatori di nuvole”, che si trova al di là di un orizzonte lontano?
Seppur poco conosciuto, oppure ignorato dalla grande politica nata con il tracciamento di confini artificiali nei due periodi post-bellici del XX secolo, Wahat al-Salam–Neve Shalom è l’esempio vivente che la risposta vera sta nel dialogo; nel sedersi gli uni con gli altri ogni giorno e ogni sera; nel condividere emozioni e realtà, sogni e momenti di vita quotidiana, cibo, acqua, una partita di pallone o una festa di compleanno. È lì che si trova il seme per una forza costruttiva e non distruttiva.
Ma allora, forse, l’armonia di questo villaggio è un messaggio universale, egualmente applicabile ad altri popoli martoriati (Nagorno-Karabakh oppure Donec’k e Luhans’k per citarne alcuni che sono sotto gli occhi di tutti noi).
La consolidata esistenza di Wahat al-Salam–Neve Shalom ci narra che la pace non è una stella irraggiungibile, ma bensì un sentiero percorribile; un processo reale seppure talvolta, come tutte le umane cose, sia destinato ad attraversare momenti di imperfezione, come succede in questi giorni. Il ché, però, non significa che sia un obiettivo irraggiungibile.
Dobbiamo solo volerlo e lavorarci. Tutti, nessuno escluso.