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Piccoli paesi muoiono

by Ivan Battista
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Oltre le città urbanisticamente violentate, i piccoli paesi che muoiono è un altro argomento di interessante dibattito che rientra, a mio avviso, nell’ambito della rigenerazione urbana. Borghi bellissimi, carichi di storia e realtà architettonico-urbanistiche sorprendenti, circondati sovente da boschi, selve e macchie meravigliose la cui vista lascia senza fiato, in cui è terapeutico, invece, immergersi e respirare con i polmoni e con l’anima. Ebbene, molti di questi luoghi stanno letteralmente morendo per abbandono di residenti e inevitabile trascuratezza delle dovute manutenzioni.

Le ultime statistiche ci dicono che, in Italia, si muore molto meno e si nasce anche molto meno. La tendenza è comune a tante nazioni cosiddette occidentali, ma la nostra nazione detiene il record del calo dei natali. È un problema che sta già devastando tutta la struttura sociale del Bel Paese. Danno ormai permanente alla previdenza e danno crescente alla densità di popolazione e alla sua tipizzazione. La diastole del soprannumero di alcune metropoli fa il paio con la sistole dello spopolamento di tante piccole cittadine, alcune anche molto belle e cariche di storia. Le ragioni di tale spopolamento sono plurime. Dalla carenza di acqua potabile disponibile con erogazione continua alla insufficienza dei servizi sanitari alla viabilità stradale disastrata passando per il deserto delle possibilità lavorative, se non proprio di carriera.

Eccezion fatta per quegli eroici giovani che restano e caparbiamente investono energie e speranze nel loro luogo elettivo, quei pochi rimasti nelle piccole realtà cittadine emigrano. Soprattutto, fuoriescono quelli laureati, meglio ancora con lauree forti, cioè quelle richieste spasmodicamente dal mercato del lavoro. Alcuni piccoli comuni hanno messo in atto strategie volte ad invogliare a fermarsi e mettere su famiglia offrendo al costo simbolico di 1 euro alcune case strutturalmente stabili, ma per lo più da restaurare (rigenerare?). Offrono Alloggio praticamente a costo d’acquisto zero, purché sia accollato il prezzo della ristrutturazione e sia trasferita la residenza nel comune.

Il fantasma dell’abbandono, specie nelle comunità montane, aleggia minaccioso e spietato. Se non s’inverte drasticamente la propensione, tante piccole realtà socio-urbane moriranno e con esse la loro storia e la loro cultura. Complice principale, insieme con altre cause tutte importanti, è una vera e sostanziale politica rivolta alle famiglie mai esistita a favore del popolo.

Nei tempi andati, sposarsi, creare un nucleo famigliare era un’aspirazione culturale ancor prima che una necessità sociale. Tutto era automatico e le Istituzioni non si dovevano occupare più di tanto.  Oggi, metter su famiglia e donare figli alla comunità non è un obbiettivo primario da parte almeno delle due ultime generazioni. Diciamo che non è più di moda. La crisi della coppia e della famiglia, in quanto evento sociologico, è una dura realtà con cui confrontarsi. La carenza di lavoro stabile e garantista, le possibilità di carriera rare e quasi inarrivabili (l’ascensore sociale in Italia esiste, ma sembra fermo per manutenzione da anni ormai). La cronica insufficienza dei servizi non agevola la difficile realtà di una ipotetica coppia che decida di formare una famiglia. Sanità pubblica smantellata a favore di quella privata con prezzi elevati. Asili nido comunali non in grado di offrire posti bastanti e l’organizzazione della scuola primaria e secondaria in forte affanno a causa dell’erogazione dei fondi deficitaria. Situazioni primarie a volte irrisolvibili a meno che non ci si rivolga ancora una volta ai costosi privati. Le vie di comunicazione stradali e marittime disagevoli. La dotazione wi-fi debole che non permette il collegamento migliore per lo scambio di messaggi via etere e rafforza il sentimento di isolamento etc.

In questo desolante scenario sociale, la rigenerazione urbana, ha il suo forte motivo di esistere, in quanto ha competenze e capacità di intervenire sul tessuto degli insediamenti e non solo sul singolo pezzo architettonico come un palazzo disabitato, una caserma dismessa o un centro commerciale chiuso per fallimento. Molti sono stati gli urbanisti italiani che annoveravano nella loro preparazione queste skills, per dirla con un termine britannico e hanno fatto scuola. Da Ettore Stella a Federico Gorio, passando per Edoardo Salzano giungendo a Bernardo Secchi e a Giuseppe Imbesi, che ebbi il piacere di conoscere personalmente (mi scisse una bellissima prefazione ad uno dei miei libri: Psicoarchitettura). Tutti grandi ingegneri e architetti urbanisti che hanno segnato la storia recente dell’urbanistica italiana.

Prendiamo ad esempio l’insediamento del villaggio La Martella (Matera). Dopo l’edizione del libro di Carlo Levi Cristo si è fermato ad Eboli (Einaudi,1945), grande fu il fermento politico e culturale per la riforma agraria con importanti e sofferte lotte popolari che si prefiggevano lo scopo di migliorare la vita di tanti lavoratori agricoli. Matera si trovò nel centro di un interesse politico e sociale a causa delle povere condizioni di vita degli abitanti dei cosiddetti “Sassi” (all’epoca, grotte fatiscenti dove vivevano persone in condizioni disagiate). La missione Eca (Usa) prospetta la fondazione di un paesino agricolo con l’intendimento di ristrutturare il territorio dell’insediamento materano. Il bravo capitano d’industria Adriano Olivetti, da sempre interessato al benessere dei proprio lavoratori, designato presidente dell’UNRRA CASAS, insieme con l’INU, costituisce una commissione con lo scopo di regolamentare lo studio della città e della campagna di Matera. Per realizzare ciò, chiama in causa gli urbanisti Federico Gorio (ingegnere ed esponente del neoempirismo nazionale) e Ludovico Quaroni (Architetto). Al materano Ettore Stella fu assegnata la redazione del progetto UNRRA CASAS con il preciso intento di accogliere gli sfollati dai soprannominati “Sassi”. L’Architetto Stella, purtroppo, muore a 35 anni per un incidente automobilistico. Un nuovo progetto fu stilato e assegnato a Ludovico Quaroni e Federico Gorio con la collaborazione di professionisti del neorealismo e razionalismo italiano quali: Piero Mari Lugli, Luigi Agati e Michele Valori.

Ancora ai nostri giorni la rigenerazione (longitudinale nel tempo) della frazione de La Martella resta un ottimo esempio di come si può realizzare, con studio intelligente e mirato, un luogo urbano dove vivere più felici e nel pieno rispetto di condizioni umane irrinunciabili, del simbolismo dei luoghi e della loro storia mitica.

Con ogni probabilità il geniale architetto Louis Kahn (al secolo Itze-Leib Schmuilowsky), statunitense di origine estone, quando l’Estonia era sotto l’impero Russo, fu influenzato molto dalla cultura architettonica italiana. Sia la Esherik House di Chestnut Hill, Philadelphia, Pennsylvania, che ricorda molto i costrutti di La Martella sia il Salk Institute di La Jolla, California, che rimanda al monumentale e imponente modo di costruire dell’arte classica greco-romana, sono il risultato di un suo viaggio (1950-1951) nei paesi mediterranei e specificatamente in Italia, all’American Academy di Roma.  Itinerario che lo ispirò nella sua visione costruttiva. Queste sue parole vergate, e inoltrate al suo studio il 6 dicembre 1950, tolgono ogni dubbio a tal proposito:

“Mi sto rendendo definitivamente conto che l’architettura dell’Italia resterà la fonte d’ispirazione per i lavori futuri, chi non la vede in questo modo dovrebbe osservarla un’altra volta. Le nostre cose sembrano piccole a confronto: qui tute le forme pure sono state sperimentate in tutte le varianti dell’architettura.  Bisogna comprendere come l’architettura dell’Italia si rapporta a quanto sappiamo del costruire e dei bisogni. Non mi interessano molto i restauri, ma mi rendo conto della grandezza del valore del modo in cui si confrontano con spazi modificati dagli edifici che vi sorgono intorno e che ne rappresentano la premessa…”

Assumere l’incarico di costruire nuovi insediamenti in spazi antichi o addirittura rigenerarli, con tecniche funzionali e riferimenti rispettosi del genius loci e della storia particolare del posto senza mai tradirli, è un esercizio urbanistico che sicuramente realizzerà volumetrie, spazi e tagli di luce in grado di rendere nuovamente piacevole la vita al loro interno.

Altri esempi di progettazione urbanistica che mira alla dimensione serena e organizzata del vivere urbano sono sicuramente, a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primissimi anni del Novecento del secolo scorso, le lezioni di Ebenezer Howard con le realizzazioni delle sue “città giardino”: Letchworth e Welwyn. Howard offrì una risposta “rigenerativa” ed efficiente alla drammatica congestione di Londa a seguito del boom della rivoluzione industriale che comportò un terribile degrado urbano e sociale (leggere alcuni libri di Charles Dickens come Oliver Twist o David Copperfield per farsene un’idea). Distanziando le due città giardino dalla metropoli, la prima di trenta chilometri, la seconda di cinquanta, Howard fuse, in un accordo intelligente, le esigenze produttive della grande città con quelle rurali della cittadina di campagna.

È indubbio che l’insegnamento di Howard fu ripreso qualche decennio più tardi da Le Corbusier (con la Ville Contemporaine 1922, col Plan Voisin, nel centro di Parigi, 1925 e con la Ville Radieuse 1929-30). Anche Frank Lloyd Wright è stato certamente influenzato dalla visione di Howard con la sua ideazione di Broadacre (1934-35). Tutti questi grandi professionisti avevano recepito l’urgenza di un cambiamento urbano che riportasse al centro dell’interesse dei piani regolatori il benessere e la felicità di vivere degli abitanti. Ciò doveva avvenire attraverso un connubio di scambio intelligente tra le esigenze dello sviluppo tumultuoso delle metropoli e la realizzazione di città satellite del tutto autosufficienti in quanto ad economia produttiva, erogazione di servizi e facilità di informazioni (trasporti, telecomunicazioni etc.).

Chi resta a combattere contro l’allontanamento dai paesini-borghi, attualmente, ha qualche piccola arma in più: la facilità delle comunicazioni, inviate e ricevute, che permette di “restare”, invece, in contatto col mondo intero. I compiti per rendere appetibile il fermarsi o, addirittura, il trasferirsi in queste piccole realtà cittadine sono pesanti, ma non impossibili. La Regione Lazio ha approvato di recente una delibera con la quale assegna a Lazio Innova Spa la conduzione di un bando pubblico per l’aggiudicazione di circa 5 milioni di euro riservati a giovani fino a 35 anni che già operano o vorranno avviare nuove attività economiche soprattutto nei comuni montani regionali. Nell’ultimo censimento della Città eterna si è riscontrato un calo dei residenti di circa 300.000 unità. Soprattutto i giovani fuggono dal caos e dalla disorganizzazione della metropoli in cerca di quiete e ritmi quotidiani meno logoranti.

L’Intelligenza Artificiale porterà via molti posti di lavoro, è vero, ma non quelli in cui le mani, e la competenza creativa artigiana e agricola, saranno ancora insostituibili. Quindi, piccole, ma specializzate aziende contadine di prossimità, lavori artigianali in cui è richiesta una esperienza pluriennale, insomma, tutte quella attività in cui la I.A. può esprimere certamente giudizi e indicazioni coadiuvanti, ma che non potrà mai realizzare per cursus individuale e trascorsa esperienza esistenziale personale. A queste condizioni trasferirsi in un piccolo borgo morente può avere senso e procurare di conseguenza, a cascata, tutto un riavvio di servizi (sanitari, sociali, di comunicazione e di trasporto) di cui si ha bisogno. Avviare una start app, una piccola azienda agricola o d’allevamento, una professione artigianale molto specifica legata alla storia e alla cultura del territorio, rispolverare feste tradizionali connesse alla cultura e al passato caratteristico della zona, queste ed altre specificità tipiche potranno compiere il miracolo della rianimazione dei piccoli paesi che muoiono.

Lo spazio editoriale è tiranno, perciò, voglio concludere questo mio articolo con la segnalazione di un interessante elaborato dell’ingegnere urbanista professor Alessandro Bianchi (La “restanza”, da un altro punto di vista) nel quale, con un colto stile di redazione mette in risalto le effettive motivazioni dello spopolamento dei piccoli centri. In tale scritto, il professor Bianchi cita un libro davvero interessante: La restanza, per l’appunto, di Vito Teti (Einaudi 2022).