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Vienna, il Daesh ed Erdoğan

by Luigi Gravagnuolo
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Funziona sempre così quando monta la protesta. Qualsiasi protesta. Si cercano e si trovano i simboli di quanto si vuole abbattere e se ne invoca la distruzione; emergono dei leader o delle organizzazioni che interpretano questi sentimenti e che passano dalle parole ai fatti; dopo un po’ si sviluppa la lotta per la leadership tra queste organizzazioni. Tale lotta si esplicita spesso in una sorta di competizione a chi colpisce prima e con più efficacia quei simboli.

Quando Osama Bin Laden pensò che fosse giunto il momento di scalzare Saddam Hussein dal ruolo di guida di quella parte dell’Islam che cercava lo scontro con l’Occidente, mise in atto la più inimmaginabile delle azioni simboliche, il dirottamento di due aerei di linea sulle Torri Gemelle di New York. Era l’11 settembre 2001. La sua al-Qa’ida divenne di colpo la guida planetaria del fondamentalismo islamico. Sconfitto ed eliminato Bin Laden, è stata la volta di al-Baghdadi e del suo Stato Islamico, altrimenti detto Daesh, a cercare la leadership mettendo in essere azioni tanto spietate quanto appariscenti.

Col tempo Bin Laden ed al-Baghdadi sono stati sconfitti sul campo ed eliminati fisicamente, ma al-Qa’ida e Daesh, pur costrette alla clandestinità e prive di un territorio base, continuano ad esistere ed a combattere su tutto il pianeta contro l’Occidente. E a combattersi tra di loro per l’egemonia.

Nella guerra civile siriaca è emerso però un nuovo leader, potente, dotato di forze armate ottimamente equipaggiate e premier di uno Stato vero. Anno dopo anno, passo dopo passo, Recep Tayyip Erdoğan, unendo all’azione diplomatica gesti simbolici, vedi la vicenda Santa Sofia, ed iniziative militari – dopo quelle in Siria, le attuali in Libia e nel Nagorno Karabakh – si sta candidando ad essere il punto di riferimento mondiale del riscatto islamico. Si propone con sempre maggiore efficacia come il difensore dei diritti dei musulmani, dovunque essi risiedano, e la sua stella comincia ad essere attrattiva della loro voglia loro riscatto. Al-Qa’ida ed Isis perdono terreno.

La rabbia che serpeggia tra i fedeli al Profeta, quasi due miliardi nel mondo, è sotto gli occhi di tutti. Basta una satira a scatenare il putiferio. Dall’Indonesia al Pakistan, dall’India all’Afghanistan, al Maghreb, alla Palestina si bruciano le bandiere della Francia e quelle degli USA, si proclama la fatwā contro Macron, si invoca la jihād contro il blasfemo Occidente.

In questo contesto Erdoğan è stato lesto a mettere il proprio cappello sull’indignazione per le ennesime vignette satiriche di Charlie Ebdo. Ricostruiamo la successione degli eventi.

Due settimane fa, l’insegnante parigino Samuel Paty illustrava ai suoi allievi le caricature del settimanale. Dopo poche ore, per atroce ritorsione, un fanatico fondamentalista lo ha ucciso e decapitato. La Francia e l’intero Occidente, inorriditi, si sono mobilitati e lui, il capo del governo della Turchia, invece di esprimere una doverosa e per molti aspetti scontata solidarietà al governo ed al popolo francese, si è fatto interprete dell’indignazione dell’Islam verso i vignettisti di Charlie Ebdo, addirittura accusando il presidente Macron di esserne il mandante.

Ed ecco Nizza e Lione, dove alcuni sprovveduti apprendisti terroristi infieriscono su gente inerme, in preghiera, uccidendone tre. Un abominio, così efferato da mettere Erdoğan con le spalle al muro, molto difficile per il capo di un governo di un Paese membro della NATO non condannarlo. Ma Erdoğan ha mantenuto la posizione, non ne ha preso le distanze. Ed arriviamo così a Vienna, l’altro ieri sera.

Qui la comunità musulmana residente, irritata per la recente decisione del governo di espellere dall’Austria alcuni imam, è in agitazione, vorrebbe ribellarsi, ma non ne ha la forza. Gliela dà il Daesh, prima che a tutela dei musulmani di Vienna possa intervenire col suo peso politico e diplomatico il leader turco.

Stiamo dunque nel pieno di uno scontro per la leadership interno al mondo islamico.

Preso atto di ciò, l’Occidente cosa fa, cosa può fare? È sufficiente la controffensiva delle forze dell’ordine, la cattura dei colpevoli e la loro punizione esemplare? Possiamo mai immaginare di portare la nostra reazione al di fuori dei nostri confini, come fu fatto dopo le Torri Gemelle, attaccando le centrali di comando dell’Isis o di al-Qa’ida, dove che esse si annidino, e minacciando di ritorsioni severe la Turchia di Erdoğan?

O non dobbiamo invece insistere nella ricerca del dialogo, anche di quello interreligioso, nell’intensificazione delle misure sociali verso le minoranze etniche e religiose residenti in Europa e nella cooperazione economica transnazionale, azioni tutte finalizzate all’isolamento degli estremisti islamici?

<<Esiste un’alleanza implicita tra estremisti in Oriente (islamisti in particolare) ed estremisti in Occidente. – ha scritto giorni fa Talal Salman, direttore del giornale libanese Al Safire, a proposito delle proteste mondiali dei musulmani contro Macron – Di tanto in tanto, gli estremisti in Francia, in Belgio, in Svezia, in Gran Bretagna e così via si precipitano a pubblicare articoli o vignette offensive sull’Islam e i musulmani […]. Questi “regali”, che arrivano dall’Occidente, danno luogo ad una massiccia campagna di protesta e condanna, che spesso viene deviata per servire scopi politici specifici e limitati. […] si può presumere che i fanatici lì (in Occidente) e qui (in Oriente) siano dei veri partner: si servono a vicenda […] L’intolleranza è una piaga devastante ed un investimento gratificante per chi sa come utilizzarla […] ma il fanatico non sfamerà chi ha fame, e non darà lavoro a un disoccupato e non aprirà le porte del paradiso ai calunniatori e ai bruciatori di simboli di altre religioni!>>.