Con una nota diplomatica di qualche giorno fa, indirizzata al governo cinese, l’Italia ha deciso di non rinnovare il memorandum of understanding firmato quasi quattro anni fa dal Governo giallo-verde di Conte. Era la prima, ed unica, adesione di un Paese occidentale al progetto della Via della Seta. Firmando il MoU Italia-Cina, l’Italia è stata sia una “prima assoluta”, sia una “ritardataria”. È stata infatti il primo e unico paese del G7 a siglare un accordo d’intesa con Pechino, ma in quel momento era anche il 121° paese ad averne stipulato uno (arriveranno a 148 nel 2023).
Quella adesione italiana al progetto cinese venne accolta, per usare un eufemismo, con molta freddezza dalle cancellerie occidentali. Sembrava un modo non solo per scartare dal quadro delle alleanze internazionali consolidate, ma anche un modo per avvicinarsi agli Stati dell’Est Europa che avevano già da qualche anno sottoscritto lo stesso accordo. Mi capitò, assieme ad altre persone, di essere invitato dal console di Germania che voleva cercare di capire le ragioni che spingevano il governo italiano ad andare in quella direzione.
Devo dire che, pur capendo le esigenze professionali, non avevo molto apprezzato quel tentativo di carpire segreti che non c’erano. Non apprezzavo affatto quel governo, che considero uno tra i peggiori nella storia della Repubblica. Però al console mi rivolsi in questo modo: siamo in queste condizioni grazie alla politica di austerità che la Germania ha imposto all’Europa.
Il risultato delle ultime elezioni trova la matrice esplicativa proprio in quelle scelte. Quindi, invece di chiedere a noi, interrogatevi sugli errori commessi dalla grande Germania. Oltretutto, la matrice dei nostri interscambi era una delle forze trainanti dell’economia comunitaria. Alle prime difficoltà, le importazioni dei semilavorati, soprattutto per l’industria automobilistica, che prima la Germania importava dall’Italia, vengono oggi dai Paesi dell’Est Europa, ad un costo più basso, ma anche ad una qualità più bassa. Avete scelto di cambiare la matrice gli scambi, penalizzando la nostra economia, ed ora vi chiedete perché accade tutto ciò.
Non dissi che la scorciatoia scelta dal governo italiano attraverso l’accordo con il governo cinese non portava da nessuna parte. Lo pensavo allora, tra i pochi che non cantarono il peana della lungimirante visione degli allora timonieri. Si sa, questo è uno degli sport nazionali. Non solo salire sul carro del vincitore, ma essere più lealisti del nocchiero del momento pare essere una necessità vitale, quasi cromosomica, del nostro popolo.
Sul piano della bilancia commerciale e degli investimenti, il MoU non ha portato i benefici sperati. Anzi, nel 2022 il deficit commerciale dell’Italia verso la Cina ha fatto segnare il record di sempre (-47 miliardi di dollari), mentre gli investimenti della Cina in Italia si sono fermati ben prima che Roma cominciasse a diffidarne e a “stopparli” attivamente.
Non ci voleva la zingara per prevederlo. Avevo avuto occasione di parlarne con l’allora Ministro Luigi di Maio, quando ero presidente dei porti di Napoli e di Salerno, nel corso del varo di uno scafo a Castellamare di Stabia. I numeri aiutano a spigare spesso le questioni in modo implacabile.
Mi ero fatto il conto delle importazioni annuali dei porti campani dalla Cina: il valore era pari a 1,5 miliardi di euro. Per contro le esportazioni di prodotti campani che erano dirette verso la Cina non erano che 121 milioni di euro. Non era una specificità della nostra regione: il rapporto tra importazioni dalla Cina ed esportazioni dell’Italia verso la Cina era in rapporto di 10 a 1.
Era evidente che aprire il nostro Paese ad un grande progetto imperiale della potenza asiatica emergente non era nell’interesse nazionale. Se volevamo farlo, c’era una necessità che riguardava l’abbattimento delle barriere tariffarie e non tariffarie che la Cina, con molta accortezza, aveva posto a difesa delle proprie industrie nazionali. Chi voleva vendere prodotti in quel mercato, doveva andare ad investire direttamente in quei territori, in joint ventures con aziende locali, sostanzialmente per consentire un progressivo trasferimento tecnologico che avrebbe consentito di modificare i rapporti di produzione su scala internazionale.
Per dire come eravamo sprovveduti in quella vicenda, a testimoniare la svolta epocale che veniva affrontata con quel visionario accordo, si fece partire un aereo carico di arance siciliane, per mostrare lo scalpo dello sprovveduto cinese che da quel momento in poi avrebbe sostituito il riso delle piantagioni nazionali con i prodotti della terra italiana.
Altre nazioni, un filino più sagaci, hanno fatto affari con i cinesi secondo il modello delle rispettive convenienze, magari forse guardando troppo al breve termine e non alla strategia di lunga prospettiva che stava dietro il disegno del Dragone, guidato da un partito comunista diventato uno spregiudicato operatore di libero mercato però orientato da una ferrea pianificazione. Lo ha fatto la Germania in particolare, oltre che le grandi multinazionali che sono andate a cogliere opportunità tattiche.
Anche sul fronte delle relazioni e degli scambi culturali, il MoU non ha avuto conseguenze positive. Effetti ben maggiori, ma negativi, si sono visti con la pandemia, che ha fatto crollare le collaborazioni tra le università italiane e quelle cinesi. Con la fine delle misure restrittive, queste collaborazioni non hanno conosciuto alcuna ripresa.
A prescindere dai risultati, era difficile immaginare un esito diverso dall’uscita dell’Italia dal MoU. I rapporti tra Cina e UE, così come quelli tra Pechino e il mondo, oggi sono molto diversi rispetto al 2019. L’invasione russa dell’Ucraina, in particolare, ha messo in luce tutti i rischi strategici di dipendere in misura eccessiva da un paese così grande e dai valori non allineati con quelli occidentali.
Per Pechino, la firma del memorandum of understanding con l’Italia nel 2019 si inscriveva in una strategia iniziata con l’avvento al potere di Xi Jinping. È infatti dal 2013, con l’insediamento di Xi alla presidenza, che vengono firmato i primi MoU: tutti nel contesto dell’ambizioso progetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative, conosciuta anche come “Nuova via della seta”. I MoU sono accordi non vincolanti che delineano intese e obiettivi di cooperazione tra la Cina e i vari paesi coinvolti. I primi due accordi “europei” di questo genere, stipulati nello stesso anno, coinvolgono la Bielorussia e la Moldavia, paesi al di fuori della sfera d’influenza dell’Unione Europea. La svolta vera e propria arriva però nel 2015, con il coinvolgimento di nazioni dell’Europa centro-orientale, tra cui Polonia, Ungheria e Romania.
L’Italia, invece, stipula il suo MoU da “ritardataria”: nel marzo 2019, quando già 121 paesi avevano sottoscritto il MoU con la Cina sui 148 che lo hanno fatto a oggi. La firma italiana avviene in un periodo caratterizzato dall’adesione di altri paesi dell’Ue “meridionale”: la Grecia nell’agosto 2018, il Portogallo nel dicembre 2018 e Cipro nell’aprile 2019. Ma proprio il 2019 segna la fine dell’impulso propulsivo generato dalle numerose firme di memorandum: i paesi disposti a stringere accordi di questo tipo con la Cina si riducono notevolmente. L’Italia, inoltre, sorprese Stati Uniti e UE diventando il primo paese del G7 a firmare un MoU con Pechino. Ma quali effetti ha avuto la firma del MoU sui rapporti tra Italia e Cina in questi cinque anni?
Tra le principali ragioni per la stipula del MoU con la Cina, nel 2019 il governo italiano aveva citato l’importanza di potenziare gli scambi commerciali nell’ottica di un reciproco beneficio. In effetti tra il 2019 e oggi l’interscambio tra Italia e Cina è cresciuto da 50 a 84 miliardi di dollari. Tuttavia, il vantaggio risulta praticamente unilaterale, a favore di Pechino.
Mentre le esportazioni italiane nel quinquennio sono cresciute di 4 miliardi di dollari (da 14,5 a 18,6), quelle cinesi sono quasi raddoppiate, passando da 35 a 66 miliardi di dollari. Questa tendenza solleva interrogativi sulla sostenibilità e l’equità della partnership. La sfida per il governo italiano ora è bilanciare questa dinamica per garantire una relazione economica più eque e sostenibili nel lungo termine.
Il governo italiano auspicava, inoltre, che la firma del memorandum d’intesa tornasse a stimolare gli investimenti cinesi nel nostro paese. Tuttavia, quasi cinque anni dopo, non si è registrato alcun risultato apprezzabile. Anzi, secondo i dati dell’Heritage Foundation, il picco di investimenti diretti esteri cinesi in Italia è avvenuto nel 2015, diversi anni prima della firma.
Contrariamente alle aspettative, dopo la firma del MoU gli investimenti non solo non hanno registrato un aumento, ma hanno addirittura cominciato a rallentare. È interessante notare che paesi come la Francia e la Germania, che non hanno mai aderito alla Belt and Road Initiative, abbiano visto lo stock di investimenti cinesi nel paese restare più elevato rispetto all’Italia. È anche vero che negli ultimi anni il clima nei confronti degli investimenti cinesi in UE si è notevolmente raffreddato. L’Italia, come altri paesi europei, ha potenziato il meccanismo di screening degli investimenti esteri in entrata: una misura finalizzata a regolare e proteggere settori strategici e di interesse nazionale come difesa, sicurezza, energia, trasporti, telecomunicazioni e tecnologia.
Durante il mandato di Mario Draghi, il governo ha esercitato il suo potere di veto in cinque casi, tutti legati alla Cina, in settori come la produzione di droni (Alpi Aviation), i semiconduttori (Applied Material Italia e Lpe), le sementi (Syngenta) e la robotica (Robox).
Il memorandum sottolineava chiaramente anche l’obiettivo di potenziare gli scambi culturali tra Italia e Cina, mettendo l’accento sulla crescita della rete di città gemellate e sull’aumento delle collaborazioni tramite un forum culturale bilaterale. La collaborazione si estendeva anche agli scambi tra università e giovani, con l’obiettivo di arricchire reciprocamente le prospettive culturali e promuovere una comprensione interculturale più profonda.
Nonostante le speranze iniziali, però, i dati rivelano un netto calo nelle collaborazioni universitarie tra le due parti. Questa tendenza è stata inevitabilmente accentuata dalla situazione pandemica a partire dal 2020 e dalle successive contromisure adottate da Pechino. Malgrado gli sforzi previsti nel 2019 non si osserva alcuna ripresa in questo tipo di scambi, nemmeno dopo l’eliminazione di tutte le misure restrittive causate dalla pandemia di COVID-19 nel 2022.
Il motivo che ha spinto l’Italia a rivalutare la sua partnership strategica con la Cina va oltre il presente, proiettandosi verso il futuro. Certo, per Roma è stato inevitabile prendere atto dell’approfondimento del deficit commerciale, ma la latitanza degli investimenti cinesi in Italia e il crollo delle collaborazioni universitarie hanno cause più profonde. Come abbiamo visto, è stato proprio il governo Draghi a bloccare quattro partecipazioni o acquisizioni cinesi nell’ultimo periodo. Il motivo è che non solo l’Italia, ma l’intera Europa, sta oggi riconsiderando sotto il profilo della dipendenza strategica l’opportunità di collaborare con Pechino.
Questo ripensamento è motivato, tra le altre cose, dal fatto che la Cina detiene una quota dominante nella produzione delle tecnologie cruciali per la transizione verde. In molti casi la dominanza cinese sui settori cruciali per la transizione supera persino il 45%, che era la quota di mercato che la Russia deteneva nelle esportazioni di gas naturale verso l’UE prima dell’invasione dell’Ucraina.
E si tratta di un predominio che non tocca i soli settori industriali, ma anche quelli estrattivi, in particolare per ciò che riguarda le materie prime critiche e strategiche. Per questo a marzo 2023 l’UE ha proposto il Critical Raw Materials Act e il Net Zero Industry Act. E, anche per questo, appariva da tempo inevitabile che l’Italia non rinnovasse il MoU siglato nel 2019.
1 comment
Molto interessante, dettagliato e preciso.
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