Il professore Bruno Discepolo è l’assessore regionale della Campania all’urbanistica ed al governo del territorio. Ho avuto da lui un contributo nell’ambito del nostro percorso di approfondimento sul tema degli spazi della città post-Coronavirus.
Cosa ne pensi?
Si assiste in questo periodo ad un dibattito che manifesta una tendenza che francamente non comprendo, pur volendo cogliere tutte le specificità del momento. Sta montando un’ideologia anti-urbana proposta come soluzione ai nuovi problemi che ci troviamo di fronte. Una posizione evidentemente antistorica, peraltro ricorrente, per la quale la risposta alla pandemia sarebbe quella di abbandonare le città, viste come luogo di negatività, e tornare alla campagna, ai piccoli borghi. Una trentina di anni fa si sviluppò un sentimento analogo legato alla insicurezza delle città, ai problemi di degrado, alla difficoltà di convivere con i problemi connessi ai processi di inurbamento e quindi si immaginò il ritorno ai piccoli centri. Una rivista americana elesse addirittura Todi, individuata chissà in base a quali criteri, a luogo più vivibile del mondo. Viceversa, si pone la questione della resilienza delle città, che in realtà non è una riscoperta di questi anni ma è un dato che connota l’urbano da sempre. Le città nei millenni hanno resistito a fenomeni di dimensioni ben più gravi di quello attuale, hanno sopportato pestilenze che ne hanno decimato la popolazione, da Londra a Napoli, ma che non hanno impedito la loro rinascita. Certo, oggi stiamo scoprendo che alcuni modelli, già noti ma mai significativamente applicati, come il lavoro a distanza, potrebbero rappresentare un’occasione importante per i piccoli centri, per le aree interne, per tutti quei luoghi che hanno vissuto una crisi fortissima di abbandono e spopolamento. Legando tra loro i vari processi di innovazione tecnologica, possiamo immaginare una diffusione più capillare sul territorio di luoghi dove sia possibile un’alta qualità della vita, lavorare, usufruire di collegamenti efficaci e quindi consentire un modello insediativo più articolato della semplice concentrazione nelle grandi aree metropolitane. Fermo restando che tutto questo non può risolversi in una grande rimozione, ritornando al punto in cui c’eravamo fermati. Perché questa è l’aspirazione di tante persone: ritrovare ciò che hanno perso e rimuovere tutta questa stagione. E’ evidente che bisognerà apportare dei cambiamenti, senza demolire l’idea di vivere insieme in grandi aree ma per capire come sarà possibile farlo entro limiti di rischio il più contenuti possibile. Si stanno facendo tante riflessioni, in campo disciplinare, sui cambiamenti spaziali che saranno determinati dalla crisi attuale nelle città e nei modelli di città. Nelle città, che sono sempre il risultato di un’interazione tra i luoghi e le comunità che li abitano, vi è una componente che è spaziale, funzionale, strutturale, organizzativa e un’altra che riguarda i comportamenti e i modi in cui le persone abitano e abiteranno in futuro questi luoghi. Ed esiste una terza componente fondamentale: l’urbanistica dei tempi, il ragionamento sui tempi della città. Evitare i momenti di maggiore concentrazione, i picchi con i conseguenti tempi morti, e quindi scadenzare le entrate a scuola e al lavoro potrà per esempio aiutare moltissimo a contenere le disfunzioni dell’attuale modello d’uso. Uno dei temi più complessi sarà quello dei trasporti: promuovere modelli alternativi e sostenibili. Il che evidentemente non potrà significare il ritorno all’auto privata ma piuttosto più spazio alle piste ciclabili ed a tutti quei sistemi leggeri che sono i più adatti agli spostamenti brevi. Quindi diminuire la domanda di trasporto pubblico locale. Ovviamente si pone un problema di sostenibilità economico finanziaria di non semplice soluzione. Altra questione fondamentale è quella, questa si tutta spaziale, legata al superamento definitivo di una vecchia logica, tramandataci dall’urbanistica di un secolo fa, della separazione funzionale dello spazio della città. Vanno recuperati modelli insediativi diversi, immaginando quartieri più autosufficienti nei quali la residenza conviva con il lavoro, lo svago, la cultura, i parchi e via dicendo. Piccole città all’interno di una grande città. Infine, è necessario un ripensamento, anche disciplinare, sul modo in cui colpevolmente in questi ultimi decenni sono state abbandonate le giuste politiche sullo spazio domestico, sbilanciate a favore dello spazio pubblico. Per molti anni si è immaginato che il tema dell’abitazione appartenesse agli anni del dopoguerra, della ricostruzione, e che fosse diventato più importante concentrarsi sullo spazio pubblico. Poi ci si è accorti, drammaticamente, che lo spazio dell’abitare, lo spazio domestico, è in alcuni casi il centro di tutta l’esistenza delle persone. Lavorare a casa presuppone luoghi adeguati, anche un minimo di spazi all’aperto, abbandonando la cultura dell’existenzminimum, ma soprattutto luoghi di socializzazione intorno all’edificio. Un microcosmo di quei quartieri parte di un organismo urbano più complesso. In questi anni si è parlato di un housing sociale diverso da quello tradizionale che comprendesse spazi per riunirsi, il piccolo asilo di edificio, la lavanderia, la sala della televisione, con modelli nuovi da sperimentare per trasformare l’edificio nel luogo di una piccola comunità con molte cose in comune. Superando la psicopatologia condominiale. Durante questa crisi il condominio è stato, invece, un luogo di socializzazione e di una nuova coesione: i ragazzi che facevano la spesa per gli anziani che non potevano uscire di casa, la solidarietà tra i balconi. Si è forse riscoperta un’idea diversa di comunità. Tutti questi sono segnali positivi che, se governati, possono trasformare questa crisi in un’occasione di cambiamento, di riforme profonde, che si lasci alle spalle certi modelli e ci proietti verso il nuovo.
Ma sarà davvero possibile indirizzare il cambiamento spontaneo degli spazi della produzione e il conseguente meccanismo di adeguamento delle città?
Nella città post pandemia molte più persone lavoreranno a casa e questo determinerà luoghi di lavoro meno “pesanti”, nel senso di una minore necessità di spazi. Oggi la rete immateriale consente che i collegamenti nel lavoro non avvengano necessariamente nello stesso spazio fisico. Le persone avranno quindi minori esigenze di spostamento ma tutto il sistema andrà registrato. Il primo elemento sarà proprio quello dei trasporti che in questo momento rappresentano l’aspetto più difficile da governare, soprattutto dal punto di vista della sostenibilità economica. Il trasporto pubblico locale, a pieno regime, non supera il 30-35% di copertura dei costi, quindi, a meno di immaginare un biglietto di metropolitana tra i 5 e gli 8 euro, si deve ricorrere alla spesa pubblica. Immaginando treni semivuoti per rispettare la distanza sociale, chi avrà i soldi per far funzionare il trasporto pubblico?
Tu hai parlato in passato della necessità di un “patto” per il governo del territorio, è un discorso ancora valido?
Bisogna avere la consapevolezza e l’umiltà di dire che è un’ambizione quella di governare i processi che riguardano il territorio. Le trasformazioni determinate da una società in evoluzione, con le accelerazioni traumatiche che stiamo vivendo, impongono di avere un’idea di politiche adeguate, ma riuscire a governare i fenomeni non è scontato. Ecco quindi l’utilità di un patto, cioè riunire attorno a un tavolo i vari soggetti coinvolti raccogliendo un consenso che non sia solo formale ma quello sostanziale di intercettare gli interessi delle persone e le dinamiche in atto. E’ quello che ho fatto con la scrittura della legge sul governo del territorio che da due anni mi vede affannosamente portare avanti questo sforzo. Le regole rappresentano il livello di maturazione di una società in una data fase storica e quindi fotografano, in quel momento, quali sono le aspirazioni, le idee e la cultura sottese. E’ un lavoro davvero complesso. Dopo aver approvato, mesi fa, il disegno di legge in Giunta regionale, abbiamo avviato un lavoro che chiuderò la prossima settimana, ossia la revisione della norma alla luce di oltre 60 documenti di proposte prodotte dalle università, dall’INU, dagli ordini professionali, dalle associazioni datoriali e del lavoro. Penso di aver fatto un discreto lavoro che sarà apprezzato per il punto di equilibrio trovato con questa nuova versione. Quando si lavora mettendo al centro un patto sulle cose qualificanti alla fine si riesce a realizzarle.
Eppure, i Comuni chiedono più tempo per i loro Piani urbanistici. Alla luce di quello che è successo non è un’istanza sensata?
Bisogna capirsi. Se il tema è: non abbiamo fatto PUC in questi 15 anni e vogliamo altri anni di tempo, non sono d’accordo. Abbiamo già concesso alcune proroghe. Abbiamo finanziato i circa 200 Comuni che hanno fatto richiesta, una settimana fa è uscita la graduatoria dei primi 150 e i restanti 50 saranno soddisfatti entro gennaio. Se poi passa la legge, come mi auguro sia ancora possibile, ci sarà uno slittamento dei tempi di un ulteriore anno perché sono previste importanti novità in tema di semplificazione nella pianificazione. Prevediamo un tipo d piano più semplice di quello del PUC: il piano strutturale, che è solo una parte del PUC, quella obbligatoria. Se poi i Comuni non vogliono fare il programma operativo, possono anche non farlo. Per cui potranno entrare in una nuova dimensione di responsabilizzazione nella pianificazione.
Un ultimo tema: gli spazi portuali.
Come noto, alcuni sono di competenza dell’Autorità di sistema portuale ed altri sono in condivisione tra la Regione ed un universo di altri Enti. Per inciso, abbiamo inserito nel nuovo testo di legge sul governo del territorio un articolo che riguarda la pianificazione portuale, nel quale abbiamo previsto il ruolo della Regione nello sviluppo, tramite il tavolo di co-pianificazione, del dialogo tra l’Autorità portuale ed i Comuni e lo abbiamo fatto anche su sollecitazione della stessa Autorità. Il tema del rilancio, ma anche della riqualificazione, delle zone di connessione tra aree portuali e centri storici è di grandissimo interesse. Si tratta di aree nevralgiche nelle quali si dovranno giocare molte partite importanti, alcune storiche e mai risolte. Penso per tutte a San Giovanni a Teduccio, a Napoli, dove non mi convincono le ipotesi che sono state formulate all’interno del masterplan del porto. Dopo aver lavorato dieci anni a capire come riqualificare il quartiere, con tanto di progetti importanti e risorse impegnate, esce fuori l’ipotesi di realizzare proprio lì il deposito container, che significherebbe tappare una parte della città che anela da decenni a riconquistare il mare. Una scelta, tutta maturata all’interno dell’autonomia dell’Autorità portuale, che non coincide assolutamente con le esigenze della città e del necessario rapporto positivo città-porto. Una scelta, quindi, da rivedere per rilanciare, al contrario, quel progetto di riqualificazione che pochi metri più in là già vede l’unico grande, significativo esempio di rigenerazione che è quello del Polo universitario della Federico II.