L’intervista del Sindaco Gualtieri pubblicata sul Sole 24 ore del 22 settembre apre a due questioni della massima importanza per Roma.
La prima è la visione della città che, dice il Sindaco, deve cambiare passo.
In effetti al di là dei singoli problemi (non pochi e non di poco conto) e delle innumerevoli soluzioni proposte nel tempo, quello che manca a Roma è un’idea di città, vale a dire un’immagine di come vorremmo fosse la nostra città proiettata in una prospettiva lunga – non meno di dieci anni – da cui partire per mettere in campo i progetti occorrenti per farla diventare realtà.
Per questo aspetto, anche facendo la tara ai virgolettati delle ricostruzioni giornalistiche, le dichiarazioni di Gualtieri lasciano adito a qualche perplessità.
Anzitutto dire che “non possiamo stare seduti sul Colosseo e sulle altre nostre meraviglie” può anche essere inteso come un invito a guardare avanti, ma è certamente irrispettoso nei confronti dell’inestimabile patrimonio su cui Roma “sta seduta” da millenni.
Poi le perplessità aumentano quando si legge che bisogna “incoraggiare e favorire la positiva tendenza degli investitori di considerare la città un mercato importante”.
Sia pure collegata ad un evocato “disegno più generale che identifica una visione di città e chiama tutti i soggetti a concorrere alla sua realizzazione” – di cui, peraltro, non si vede traccia – l’idea che bisogna assecondare qualcuno che pensa a Roma come ad un mercato è inaccettabile.
Non c’è un’altra idea di Roma che lasciarla in mano ai sempiterni investitori? Non dimentichiamo che sono quelli che l’hanno sfregiata a partire dal giorno successivo a quando è diventata la Capitale d’Italia, che hanno proseguito costruendo le periferie modello-palazzinari negli anni Sessanta-Settanta, e sono ora le holding dei grandi complessi immobiliari che continuano ad espandere dissennatamente la città.
Gli investimenti privati sono certamente utili per fare fronte alle esigenze delle grandi città, ma vanno ricondotti nell’alveo di una politica urbanistica di stretta pertinenza dell’amministrazione pubblica che deve affermare e inverare il diritto-dovere di governare la città nell’esclusivo interesse dei cittadini.
Esistono numerosi casi esemplari in Europa dove questa logica è stata praticata a grande scala e dove sono nati connubi pubblico-privato guidati dalle amministrazioni locali che hanno ottenuto grandi risultati. Non sarebbe male studiare questi casi se si vuole costruire una strategia per cambiare passo, perché dove vale il contrario non si possono avere che grandi speculazioni immobiliari.
La seconda questione cruciale riguarda la rigenerazione urbana e il Sindaco ricorda “i grandi progetti di rigenerazione urbana a trazione pubblica” citando, tra alcuni altri, l’intervento più interessante aperto in questo momento a Roma: quello del Mattatoio-Campo Boario dove, operando con la guida del Comune, l’Università di Roma 3 e l’Accademia di Belle Arti di Roma stanno costruendo la Città delle Arti. E aggiunge, poi, che vuole “fare un grande patto verso la rigenerazione urbana con un focus importante sui social, student housing e senior living”
Ottimi proponimenti, salvo chiarire con chi il Comune vuole fare questo patto, ma che non toccano il cuore del problema della rigenerazione urbana che a Roma, come ovunque in Italia, non ha ancora trovato un suo compiuto inquadramento come pratica di intervento nella città costruita. Non si tratta di riqualificare, ristrutturare o restaurare, pratiche con cui il più delle volte la si confonde. La rigenerazione è l’intervento su un oggetto urbano – una fabbrica, una caserma, una chiesa, una stazione e mille altre cose ancora – che è stato dismesso e al quale viene conferito un nuovo genere, ossia viene modificato il “complesso dei suoi caratteri essenziali e distintivi”. A Roma è presente un caso esemplare in questo senso: la centrale elettrica Montemartini costruita nel 1912, dismessa nel 1963 e infine rigenerata nella seconda metà degli anni ‘90 in forma di Museo.
Questo è il verso che deve prendere l’urbanistica a Roma, abbandonando la logica della espansione urbana che l’ha guidata da sessanta anni a questa parte e dando una risposta concreta al principio del “consumo di suolo zero”.
Affinché questo possa avvenire occorre mettere a punto una definizione univoca di rigenerazione urbana, scrivere norme urbanistiche apposite per consentirne la pratica e assegnare risorse finanziarie a destinazione vincolata.
Operazioni non facili che, infatti, a livello nazionale stentano a decollare come dimostra la storia senza fine del DDL “Misure per la rigenerazione urbana” che giace da alcuni anni in Senato, ora accompagnato da altri sette analoghe proposte legislative.
Quello che il Comune di Roma potrebbe fare nella sfera della sua autonomia è affrontare il nodo cruciale della mancanza di conoscenza, avviando un censimento finalizzato a costruire un data-base permanente dell’enorme patrimonio dismesso presente nel territorio comunale, che contenga le informazioni necessarie per la sua rigenerazione: ubicazione, dimensione, proprietà, stato di consistenza, destinazione urbanistica, vincoli esistenti e quanto altro.
Una rigenerazione urbana così intesa e un’idea di Roma di alto profilo e di lunga prospettiva possono far uscire la città dal letargo in cui giace ormai da troppo tempo.