Stabat Mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa dum pendebat filium (la Madre addolorata stava in lacrime presso la Croce su cui pendeva il Figlio).
La preghiera fu scritta da Jacopone da Todi, poeta e mistico del Duecento, come meditazione sulle sofferenze di Maria durante la Passione del Cristo. Nel 1993 Antonio Tarantino ne scrive una versione moderna. Un monologo interpretato da Piera Degli Esposti che, riadattato in napoletano da Stella Savino per l’attrice Fabrizia Sacchi, con la regia di Luca Guadagnino, è stato portato in scena al Nest lo scorso febbraio.
Maria Croce (nomen omen) vive a Torino nei primi anni ’90. La sua situazione di ragazza madre che si arrabatta per sopravvivere e crescere il figlio, a simmental e nutella, si snoda in una realtà in cui tutti quelli che la circondano sono poco di buono. Ignoranti, approfittatori o semplicemente disinteressati alle sue tragiche difficoltà. Giovanni, Giuvà, l’amante siciliano laido e sfruttatore che non ha riconosciuto il figlio per non rompere con la moglie grassa e fetida, “barile di gorgonzola”. I professori del figlio, che ne riconoscono l’intelligenza e le capacità. Gli assistenti sociali piemontesi, che di fondo la disprezzano perché da troppi anni sprecano fondi per lei. Il prete, don Donato, che le piace ed a cui suscita insani desideri. Maddalena, la ragazza che politicamente ha aperto gli occhi del giovane. Il commissario, il dottor Ponzio, che ha arrestato il ragazzo, trovandogli una pistola di cui la madre non era a conoscenza. Ed infine il giudice Caraffia, impossibile da contattare. Ebbene tutti questi personaggi sono interpretati dalla sola Fabrizia Sacchi. Interprete di varie fiction televisive, che sul palco dimostra una forza espressiva e fisica davvero notevole.
Il monologo è in un dialetto napoletano che si fa siciliano e piemontese. Un’ora ininterrotta di battute, in cui ogni personaggio che si interseca nella storia ci viene descritto dagli occhi della Madre che cerca il Figlio. E che solo alla fine capisce che per lui non c’è più niente da fare. In una Torino in cui gli anni di piombo ancora esistono ed in cui il ragazzo che ha letto tanto, ha studiato, non ha vissuto la vita del quartiere. Protetto dalla madre, cercherà inutilmente di realizzare il sogno di riscatto che è suo, ma anche di Maria Croce.
E’ però uno stabat mater, quindi è il dolore per la perdita del figlio che prende il sopravvento su altre tematiche che pure si intravedono. E il dolore lentamente prende il sopravvento. Se inizialmente lo spettatore assiste quasi infastidito, anche per il nevrotico e parossistico fumare in scena dell’attrice, ad un discorso che ritorna continuamente su se stesso, in una moderna litania che ricorda il ritmo del testo di Jacopone, poi la parola ossessiva ci coinvolge, ci addolora, ci fa essere matres dolorosae. Accomunate a Maria Croce dalla ricerca del Figlio. La Madre, vinta dagli eventi, perderà il Figlio ma avrà gridato al mondo la sua disperazione per un lutto per il quale nel vocabolario di nessuna lingua esiste un termine per definirlo, tanto è innaturale.
L’allestimento scenico è assolutamente essenziale. Una sedia, una scala, un telefono della Sip ed un aiutante muto, Gennaro Lucci (scelto tra i ragazzi del gruppo di laboratorio teatrale #GiovaniO’Nest). Che spazzando le cicche e spostando gli oggetti crea gli ambienti. In particolare l’ultimo drammatico, il commissariato, in cui Maria aspetta inutilmente il compagno e dove, da sola, capisce la tragedia.
La resurrezione non avverrà, i poveri cristi di oggi, messi in croce, sono destinati alla morte ed all’oblio. Il dolore della madre di oggi non avrà il conforto dell’eternità per il Figlio.
Testo molto duro a volte di brutale realismo che ci costringe a confrontarci con il presente di emarginazione e sofferenza degli ultimi.