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Un Premio Nobel per la Pace e contro la guerra di Putin

by Alessandro Bianchi
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Il conferimento del premio Nobel per la Pace 2022 si presta ad alcune considerazioni che hanno molto a che vedere con la guerra sferrata dalla Russia in Ucraina.

Vediamo anzitutto chi sono i tre destinatari.

Ales Bialitski, nato in Russia, opera fin dagli anni ’80 in Bielorussia come attivista a difesa dei diritti umani e per l’assistenza ai prigionieri politici del regime di Lukashenko. Nel 1996 ha fondato la ONG “VIASNA-Human Rights Center”. Nel 2011 viene arrestato e condannato per “evasione fiscale” e nel 2014, dopo una breve liberazione, di nuovo condannato e tradotto in carcere dove tuttora si trova. Per la sua attività era stato già insignito nel 2012 del Premio Havel Vaclav da parte del Consiglio d’Europa e nel 2020 del Premio Sakharov da parte del Parlamento Europeo.

Memoriàl è una ONG fondata in Russia da Andrej Sakharov nel 1989, a ridosso della caduta dell’Impero sovietico, per denunciare i crimini di guerra commessi da Stalin in Russia e altrove. E’ un’organizzazione complessa con 50 filiazioni in Russia e 11 in altri Paesi, che il 5 aprile di quest’anno – subito dopo l’invasione dell’Ucraina – è stata dichiarata fuorilegge dal regime perché “agente straniero”.

Center for Civil Liberties è una ONG ucraina fondata nel 2007 che definisce se stessa come “uno degli attori principali in Ucraina, volto a influenzare l’opinione pubblica e la politica, a favorire lo sviluppo di un attivismo civico, partecipa a network internazionali e nelle azioni di solidarietà per promuovere i diritti umani in ambito Osce”. Dopo l’invasione dell’Ucraina si è dedicata a individuare e denunciare i crimini e gli abusi commessi dagli occupanti russi.

Come era logico attendersi l’attribuzione del premio ha suscitato reazioni diverse e contrastanti.

L’Unione europea ha espresso un ampio apprezzamento riassumibile nella dichiarazione della Presidente Ursula von der Leyen: “Il Comitato del premio Nobel ha riconosciuto l’eccezionale coraggio delle donne e degli uomini che si oppongono all’autocrazia e che mostrano il vero potere della società civile nella lotta per la democrazia”.

Invece in qualche misura inaspettato è stato il commento del Governo ucraino che ha detto: “Il Comitato del Nobel ha una curiosa concezione della parola ‘pace’ se i rappresentanti di due Paesi che hanno attaccato un terzo ricevono il premio per la pace insieme. Né le organizzazioni russe né quelle bielorusse sono state in grado di organizzare la resistenza alla guerra”. A ben vedere è perlomeno singolare attribuire a “Viasna” e a “Memoriàl” la responsabilità di non aver saputo organizzare la resistenza alla guerra – compito certo non loro – e non cogliere che anche dopo l’invasione dell’Ucraina hanno continuato a svolgere in Russia e Bielorussia il loro compito di organizzatori di resistenza civile e di documentazione dei crimini e degli abusi.

Del tutto scontata, come era logico attendersi, è stata la stizzosa reazione della Russia che è arrivata a dire “Il Premio Nobel per la Pace ha cessato di essere, in primo luogo, un premio di un qualche significato e, in secondo luogo, ha cessato di essere un premio per la pace, ed è stato completamente screditato dalla decisione odierna“. D’altronde che il regime russo parli di pace è un evidente ossimoro.

Dunque se questi sono i fatti ritengo che da qui si possa partire per fare due considerazione sul significato che l’attribuzione del premio assume nel quadro della aperta contrapposizione tra Europa e Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina.

La prima è che si tratta di un atto che si colloca su un terreno di scontro meno violento e ignobile di quello della guerra, ma altrettanto significativo. Con la violazione di un principio intangibile come il rispetto dei confini territoriali, la Russia si è collocata in posizione antitetica rispetto al mondo occidentale e quindi questo suo comportamento va contrastato non solo sul terreno della lotta armata – cosa che l’Ucraina sta facendo in modo fermo perché difende se stessa – ma anche su quello dell’opposizione civile al regime autocratico vigente, della condanna dei soprusi e delle violenze nei confronti dei dissidenti, della contrapposizione alla logica della guerra per regolare i rapporti tra Stati.

E’ questo il senso della scelta del Comitato Nobel, chiaramente esplicitato nella motivazione: “I premiati con il Nobel per la Pace rappresentano la società civile nei loro rispettivi paesi. Per molti anni hanno promosso il diritto a criticare il potere e a proteggere i diritti fondamentali della popolazione. Hanno fatto uno sforzo eccezionale per documentare crimini di guerra, violazioni dei diritti umani e abusi di potere. Insieme hanno dimostrato l’importanza della società civile per la pace e la democrazia”.

La seconda considerazione è che si aggiunge un elemento di riflessione sul senso della parola “pace”, che è oggetto di sempre più frequenti dichiarazioni, appelli e ora anche di qualche manifestazione.

Premesso che se l’Ucraina, con l’aiuto dell’Occidente, non avesse opposto una ferma resistenza armata oggi sarebbe già una provincia della Federazione Russa, il punto è che non si può dire pace senza aggiungere cosa si pensa si debba fare per raggiungere la pace, altrimenti resta una dichiarazione di principio tanto condivisibile quanto inutile.

Perché c’è qualcuno – a parte alcuni squilibrati che comunque vediamo all’opera come i sodali di Putin nella Corea del Nord e in Cecenia o tra i fabbricanti/trafficanti di armi – che non vuole la pace, che è a favore della guerra? Ovviamente nessuno ma il punto, torno a ripetere, non è questo ma è come rendere la pace possibile, ovvero qual è la condizione per far cessare la guerra. Su questo nessun pacifista dice qualcosa, se non che le parti debbono far tacere le armi e sedersi intorno ad un tavolo di discussione.

Ma può farlo mai l’Ucraina che ha visto violare i propri confini, distruggere le proprie città, uccidere, violentare e torturare la sua popolazione, fare deportazioni di massa? A buon diritto non lo farà mai e continuerà a difendere con le armi ogni palmo del suo territorio.

Potrebbe e dovrebbe farlo la Russia, ritirandosi completamente da ogni parte dell’Ucraina in cambio di un tavolo per discutere lo status di alcune situazioni particolari come nel Doneck, nel Luhansk e in Crimea.

Altra soluzione non c’è, oppure gli autoproclamatisi pacifisti dicano qual’é.