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Un film una città, Lectio doctoralis di Francesco Rosi – I

by Francesco Rosi
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Come preannunciato dal Rettore Alessandro Bianchi su questo giornale (https://www.genteeterritorio.it/un-film-una-citta-omaggio-a-francesco-rosi/), pubblichiamo di seguito la prima parte della Lectio doctoralis tenuta da Francesco Rosi in occasione della Laurea ad honorem in Urbanistica conferitagli da parte dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria il 27 gennaio 2005.

 

Le mani sulla città” nel 1963 alla XXIV Mostra del Cinema di Venezia vinse il Leone d’oro. Oggi, la Facoltà di Architettura dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria mi fa il grande onore di attribuirmi la “Laurea ad Honorem in Pianificazione Territoriale, Urbanistica e Ambientale”: segno che il film, dopo quarant’anni e più, è ancora ben vivo e inserito in una dialettica che ne conferma l’attualità.

È un riconoscimento, questo, del quale andrò fiero. Ne sono grato al Rettore Magnifico, a tutto il Senato Accademico e al Prof. Enrico Costa in particolare, ideatore e direttore presso questa Università di quel laboratorio “Cinema-Città” che “si propone di esplorare quanto e come il cinema sia strumento di lettura della città, del territorio e dell’ambiente, oltre che documentazione delle trasformazioni territoriali, urbanistiche e ambientali.”

Tre anni orsono il film meritò altrettanto onore dalla Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. Altra Laurea ad Honorem, in lettere dall’Università degli Studi di Padova, il dottorato nelle arti dal Middlebury College degli Stati Uniti, in lettere dalla Sorbonne di Parigi, hanno voluto riconoscere al mio cinema la creatività e la funzione di testimonianza e di provocazione con la quale è stata rappresentata la realtà nei temi trattati. E la realtà di un paese, l’Italia, affrontata nelle sue luci e nelle sue ombre in una ricerca di verità, sia pure solo con lo stimolo alla riflessione che un mezzo di comunicazione popolare e di analisi come un film può determinare in un pubblico chiamato a partecipare come interlocutore e non soltanto come passivo spettatore.

È la lezione raccolta dai grandi maestri del dopoguerra, i padri di quel neorealismo che ha cambiato modo di fare cinema nel mondo. Rossellini, Visconti, De Sica, e gli autori che con essi collaborarono, avevano creduto in un cinema che raccogliendo lo stimolo della Resistenza esprimesse l’esigenza di partecipare alla ricostruzione materiale e morale di una società uscita distrutta dalla guerra, di andare nelle strade, di entrare nelle case. Tale fu il neorealismo: un movimento di innovazione formale e una esigenza etica che esprimeva mediante immagini e parole le emozioni nelle quali lo spettatore riconosceva se stesso, le sue ansie, le sue sconfitte, le sue speranze.

A questo modo di fare il cinema appartiene “Le mani sulla città” un film il cui valore di denuncia costituisce l’informazione necessaria per il cittadino ignaro di ciò che un potere corrotto può determinare ai danni suoi e della società. Un film didattico, come lo definisce nel suo discorso elogiativo Giovanni Maria Lupo, Professore di Storia dell’Architettura al Politecnico di Torino: “un significativo contributo didattico alle discipline dell’urbanistica e dell’edilizia, perché induce a riflettere sulla patologia della flessibilità delle norme e dei piani e delle destinazioni d’uso dei terreni, nel processo di espansione fisica della città.” Argomento quanto mai attuale oggi che si vorrebbe sostituire lo strumento urbanistico del Piano regolatore, che passa al vaglio delle Istituzioni democratiche, con l’urbanistica negoziale tra le parti.

Il cinema è specchio della società e dei tempi e non si sottrae a tale specifica sua funzione. Ciò che costituiva il fatto nuovo e importante di quel film era che metteva apertamente a confronto moralità e strategie politiche differenti contrapposte nei meccanismi di funzionamento di un Consiglio comunale, nel luogo cioè dove viene decisa, attraverso il dibattito politico, la vita di una città per il presente e per il suo futuro. In tal modo fu chiaro a tutti il processo in base al quale il potere, nelle mani di uomini corrotti, falsa le regole per raggiungere i propri disegni illeciti di cui tutta la società finirà per pagare il prezzo. Molti dissero che non si può fare arte con tematiche simili e con intenzioni così polemiche. Io risposi che in effetti non ci eravamo tanto preoccupati di voler fare arte quanto di stimolare la partecipazione a una storia pubblica che riguardava tutti come uomini e cittadini. Del resto l’arte, quando c’è, non potrà mai essere messa in fuga dall’interesse degli autori per la politica o per questioni a carattere sociale, come il film ha ampiamente dimostrato. L’intenzione, tra le altre, fu quella di rendere chiaro a tutti che non può esserci sana democratica convivenza sociale e civile se non c’è corretta utilizzazione del territorio.

Le Corbusier ha detto “L’urbanistica esprime il modo di essere di un’epoca

Carlo Ludovico Ragghianti, che ho avuto il privilegio di conoscere e frequentare durante la clandestinità a Firenze quando era a capo del Comitato di Liberazione Nazionale, a proposito dell’urbanistica scrive: “La conoscenza effettiva dell’insediamento delle comunità umane, implica la ricostruzione di tutte le condizioni della vita sociale: economia, diritto e rapporti della proprietà, stratigrafia dei ceti, dinamica delle forze, psicologia e comportamento, produzione di beni e cultura. Una urbanistica seria non è concepibile fuori di questi termini, cioè se non ha come premessa e fondamento un piano sociale economico… Poniamo che sia stato elaborato un piano e conseguentemente sia stata formulata la sua determinazione urbanistica, che implicherà la formazione della misura e delle funzioni dell’edilizia pubblica e privata, industriale e residenziale, delle reti stradali e della distribuzione dei servizi…” fin qui Ragghianti.

Ed ecco come l’imprenditore Nottola, protagonista del mio film enuncia il suo piano: “Lo so che la città sta là, e da quella parte sta andando perché il piano regolatore così ha stabilito. Ma è proprio per questo che noi da là la dobbiamo fare arrivare qua.”

Qua” è il terreno agricolo alla periferia della città, dove un metro quadrato, se diventa edificabile grazie alla complicità dei suoi amici politici e agli interventi illegali sul piano regolatore, e cioè se a spese della comunità verranno portati a quel terreno acqua, luce, telefono, fogne, strade e tutti gli altri servizi, può aumentare fino al 5.000 per cento il suo valore. Le decisioni vengono prese in Consiglio Comunale e le prende la politica. Il film è la storia di come quel metro quadrato cambia destinazione, uso, e, smisuratamente, valore; e di come un imprenditore delle costruzioni riesce a diventare assessore all’urbanistica per potersi servire di quel potere a vantaggio degli interessi delle sue imprese realizzando un macroscopico conflitto di interessi. Io e Raffaele La Capria, che scrisse con me il soggetto, non eravamo certo dotati di particolari capacità divinatorie né di specifiche conoscenze nell’immaginare e nell’esporre gli intrighi e le complicità necessarie a far convergere su di un unico obiettivo tanti interessi diversi. Ci accorgemmo ben presto però che tutto era sotto gli occhi di tutti, bisognava saper vedere e soprattutto voler vedere. Avemmo la conferma della intuizione dalla quale era partito il nucleo drammatico e poetico del nostro racconto, valido ieri come oggi. E cioè che il sacco della città e il relativo sistema di alleanze politico-affaristiche-mafìose avrebbero provocato la conseguente compromissione del suo tessuto connettivo morale e del suo patrimonio culturale, di quei beni cioè che sono alla base, in un cittadino, dell’appartenenza consapevole e responsabile alla propria Patria e che dovrebbero rappresentare la sua identità.
Quale senso del bene collettivo può avere un bambino, poi adolescente e poi adulto, quando molti dei valori che dovrebbero formarlo al “giusto, al buono, al bello” come diceva Francesco De Sanctis, sono stati travolti?

Pensare di sanare situazioni incancrenite da secoli come le varie mafie e camorre che imperversano nel nostro paese, senza cambiare le condizioni storiche generali di vita nelle quali sono state generate e hanno progredito, è pura illusione. Se c’è un criterio di priorità negli interventi per il Sud, come da tante parti si sostiene ma tuttora non realizzato, è la scuola, di pari passo con quello del lavoro. Togliere i ragazzi dalla strada. In una scuola a tempo pieno devono trovare ciò che non possono trovare nei vicoli di città superpopolate, caotiche, cresciute senza un criterio urbanistico, dove le periferie costituiscono il facile richiamo alle lusinghe della criminalità organizzata. Nella scuola devono trovare amore per la cultura, per il lavoro, per le arti, per le attività fisiche, per la vita sana, vi devono trovare insegnamento per il rispetto degli altri e del patrimonio comune, devono trovare disciplina ma anche divertimento, e il metodo per la scoperta delle proprie capacità e creatività. Devono trovare ciò che costituisce il punto di partenza e lo scopo dell’urbanistica, l’organizzazione della società.

(continua)