Ci siamo tutti spaventati lo scorso 15 novembre quando i resti di un missile russo sono caduti in terra polacca, cioè su suolo NATO. Il rischio della terza guerra mondiale non era mai stato così alto. Per fortuna le potenze in conflitto hanno gestito come meglio non avrebbero potuto l’incidente e la cosa per il momento si è chiusa lì. Ma la guerra ‘locale’ non si è fermata; la Russia non cessa un istante nel suo metodico bombardamento delle città e delle infrastrutture energetiche dell’Ucraina, mentre le forze armate ucraine, tra la neve, il fango ed il ghiaccio, provano ancora ad avanzare ad Est e al Sud.
Non è che Putin non voglia la pace; bombarda i civili perché la vuole, ma alle sue condizioni, che Zelensky non può prendere in considerazione. Se solo accennasse a farlo, sarebbe la fine del suo governo a Kiev e forse la sua condanna alla pena capitale. Tutte le parti in causa, la NATO, l’UE, lo stesso Governo ucraino e Putin devono fare i conti con un soggetto tanto ineludibile quanto irriducibile: il popolo ucraino. E forse Putin deve farli anche con la sua coriacea autocrazia teo-tradizionalista. I margini di iniziativa per la via diplomatica sono pressoché inesistenti.
Il secolo ventesimo è stato il secolo dei tre genocidi: quello degli Armeni perpetrato dai Turchi tra il 1914 ed il 1916, un milione e mezzo di vittime; la Shoa degli Ebrei, sei milioni; e l’Holodomor, lo sterminio degli Ucraini tra il ‘29 e il ‘33, per il quale le stime degli storici oscillano tra il milione e mezzo (Wheatcroft) e i 5 milioni (Conquest) di morti. Il popolo ucraino per secoli non ha avuto un’identità nazionale propria, distinta da quella russa; l’ha formata nel corso del Novecento e del primo ventennio di questo secolo, prima in opposizione alla tirannia stalinista, poi all’invasione del 24 febbraio 2022. Dario Quintavalle, analista geopolitico, scrive su Domino, n.8/22: “Fino al 24 febbraio l’Ucraina era un paese diviso, piagato da corruzione ed emigrazione. Dopo si è scoperto unito nel combattere l’invasione”.
L’attuale spirito nazionale dell’Ucraina si è forgiato in questo crogiuolo, tra l’Holodomor del ‘29/’33 e l’invasione del 24 febbraio 2022, passando attraverso l’Euromadian del 2014 con la conseguente secessione della Crimea e di parte del Donbass e del Luhansk. Ancora all’inizio di questo secolo era difficile parlare di ‘una’ nazione ucraina. Nel perimetro dello Stato ucraino convivono infatti diverse nazionalità ed identità culturali: l’ucraina e la russa, innanzitutto, ma anche quella polacca, la tatara, la tedesca, l’ebraica, la bielorussa, la moldava, l’azera, l’armena, la cecena, la georgiana. La loro convivenza è stata storicamente precaria. Oggi non più, l’Ucraina ha trovato la sua identità nazionale, il suo comun denominatore, nel rifiuto di sottostare al dominio russo e nella scelta di far parte del mondo libero. Finanche una parte consistente della componente russofona della popolazione ucraina oggi è in armi contro l’invasore ‘moscovita’. È questo popolo, quello forgiatosi nel Novecento e nel primo ventennio di questo secolo, non il suo governo o il perfido Occidente, a non volere sottostare alle condizioni di pace di Putin. Se pure Zelensky volesse accettare quelle condizioni, ma così non è, sarebbe il suo popolo ad impedirglielo.
Il neo-zar lo sa e perciò bombarda le città e cerca di rendere insostenibile la vita della gente ucraina a causa del freddo, non mitigato dai riscaldamenti messi fuori uso dai suoi missili sulle centrali energetiche. Vuole stremare la resistenza di quel popolo, metterne una parte contro l’altra, spingerlo a ribellarsi a Zelensky e a reclamare la pace, quale che essa sia. Vuole dividere ciò che, paradossalmente, sono stati proprio i Russi ad unificare.
Al netto di iniziative autonome di singoli settori della gerarchia militare russa, Putin non farà dunque nulla che vada oltre l’obiettivo immediato di chiudere l’operazione speciale alle sue condizioni, che possa dare l’alibi alla NATO per un eventuale intervento diretto in guerra. Al G20 di Bali di tre settimane fa ha constatato plasticamente il suo isolamento sullo scacchiere planetario; lì ha dovuto prendere atto che il suo velleitario tentativo di chiamare il resto del mondo a fare squadra contro gli Stati Uniti è naufragato nel nulla. Se fosse lui ad alzare la posta ed a provocare la NATO, non si ritroverebbe nessuno al suo fianco. Non la Cina, grande potenza commerciale, alla quale certo sta più che bene mantenere buone relazioni con la Russia ed ottenerne petrolio e gas a basso costo, ma che non ha alcuna intenzione di vedere il mondo travolto da un cataclisma bellico, che comporterebbe l’azzeramento in un attimo del suo vertiginoso giro di affari. Non l’India, preoccupata piuttosto dalle minacce cinesi e pakistane ai suoi confini. Non l’Iran alle prese con una sollevazione popolare al proprio interno. Al di là di qualche dichiarazione di circostanza nessuno muoverebbe un dito per sostenere la pretesa russa di occupare l’Ucraina. Forse solo la Corea del Nord sparerebbe qualche ennesimo missile nel Mar del Giappone.
Né Putin potrebbe mai accettare una vittoria mutilata, con la restituzione all’Ucraina anche delle province del Donbass e del Luhansk che si sono dichiarate indipendenti nel 2014. Senza dire della Crimea, sacra al cuore di ogni russo. Come potrebbe giustificare di fronte al suo popolo, pur addomesticato ed in buona misura consenziente, l’aver stroncato la vita di decine di migliaia di giovani in una guerra insensata e senza risultati, senza essere a sua volta defenestrato e forse giustiziato?
Putin non andrà dunque oltre la pioggia di missili sulle città, che tanti lutti stanno provocando. Prenderà tempo, sperando che la stanchezza del popolo ucraino induca Zelensky ad accettare una pace per la Russia onorevole. Intanto intensificherà l’addestramento dei neo reclutati e la produzione di nuove armi in sostituzione di quelle finora perse.
Zelensky per parte sua dice che sarebbe disposto a sedersi al tavolo negoziale, ma non con Putin. Spera in un golpe al Cremlino, ad oggi decisamente poco probabile. Pare che ci si fosse arrivati vicini tre settimane fa, a ridosso del G20 di Bali, ma gli spifferi dicono che oggi lo zar abbia ripreso il pieno controllo della situazione. Dire che si è disposti a negoziare, ma non con Putin, vuol dire che non si è disposti ad alcuna mediazione, ovvio.
Quanto risibili e, consentitemelo, irritanti sono perciò i saccenti inviti dei nostri sedicenti pacifisti a perseguire la via diplomatica, come se nessuno ci avesse mai provato e ci stesse tuttora provando. È da quando è iniziata questa tragedia che ora Israele, ora Macron, ora Scholz ed Erdogan e papa Bergoglio e Guterres, finanche Elon Musk, pure il presidente del Messico – paese che aspira ad esprimere il successore di Guterres all’ONU – provano a mettere i due belligeranti intorno ad un tavolo senza ricavare un ragno dal buco. Che senso ha insistere su una via palesemente impraticabile, almeno per ora? E perché i pacifisti chiedono che non si inviino più armi agli Ucraini, sostituendole con le immaginarie iniziative diplomatiche? Pensano che la pace sia possibile solo se gli Ucraini vengono sconfitti?
Proprio tre giorni fa il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, aveva fatto sapere urbi et orbi che Mosca era aperta alla mediazione di Papa Francesco per la soluzione della situazione in Ucraina. Neanche il tempo di aprire il cuore alla speranza e Lavrov, ministro degli Esteri, ha chiuso quella porta: “Il Papa ha fatto dichiarazioni non cristiane [sic!] sulla brutalità dei Ceceni e dei Buriati verso gli Ucraini, ha perciò perso ogni autorevolezza per potersi proporre quale mediatore di una pace”. Punto e daccapo!
Ultim’ora, mentre scriviamo apprendiamo che Lavrov ha dichiarato che l’uomo giusto per trovare una soluzione generale del conflitto non sarebbe il Papa, bensì John Kerry; e che Biden si è detto pronto ad incontrare Putin. Aspettiamo speranzosi, ma senza illusioni premature.