Chiunque abbia installato Uber Eats avrà notato un fenomeno curioso. Mentre le altre piattaforme di consegna a domicilio con gli sconti ci vanno sempre molto leggeri, loro sono famosi per essere munifici. Non solo percentuali, a volte pure valori assoluti: dieci euro in meno là, -25% di qua. Ogni qualche settimana, una nuova promozione. E il dubbio restava nell’aria: da dove li prenderanno mai questi soldi? Dopotutto non hanno prezzi più alti degli altri (nel reparto consegne). Fornivano un servizio all’avanguardia. Potevi addirittura seguire pedalata per pedalata il rider nella nebbia, nella pioggia e nel gelo. Tifare per lui, dargli una mancia se era veloce e cordiale. Dove stava l’inghippo?
Da nessuna parte, forse. Nei soldi mai dati ai rider, dice il PM Storari, chiudendo le indagini: “i riders venivano sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retributivo e trattamentale, come riconosciuto dagli stessi dipendenti Uber”. Ogni pedalata è sudore e oppressione, afferma il pubblico accusatore. E forse l’accusa più cruda è che le mance che i clienti davano per premiare ogni goccia di sudore venivano trattenute alla fonte. Non sappiamo se sia vero. Sappiamo che siamo complici di ogni lacrima versata leggendo la busta paga. Quelle segrete rughe di rabbia di chi sa che dovrà pedalare ancora per sperare che il sogno si realizzi.
“Davanti a un esterno non dire mai più abbiamo creato un sistema per disperati”, riportano impietose le intercettazioni. Frase decontestualizzata, forse. Però non si può nascondere che il quadro sia coerente e la narrazione antica. Il mercato è il luogo in cui le persone vendono le cose. E tra le prime e le seconde c’è una distinzione netta che non ammette eccezioni, connivenze o simpatie. Qui, nelle notti fatte buie dalla pioggia o dalla scighera, la nebbia Milanese, le differenze si assottigliano. Il ragazzo che pedala con il grande cubo sulle spalle è sempre meno distinto. Le luci dei lampioni non colgono più la differenza tra la sua vita anonima e gli ordini che deve consegnare prima che si freddino. Con lo sguardo curioso e affamato del cliente che non lo abbandona mai. Non lo lascia, ma non lo vede. È il personaggio di un videogioco sullo schermo del telefonino. E nei videogiochi, alla fine, vincono sempre i mostri e mai gli eroi.
E così di chilometro in chilometro, come in un incubo, la libertà si allontana sempre di più. Beve acqua e sale il rider. E non si disseta mai. Insegue un sogno che una mano anonima e lontana sposta sempre una consegna più in là. E in ogni busta paga le punizioni economiche, le cifre col meno davanti crescono. Non può protestare, altrimenti i meno spariranno portandosi dietro ogni numero che non sia uno zero. Forse non lo realizziamo, ma si lavora di più nelle notti buie e fredde, umide per la pioggia o tormentate per il vento. Ecco quindi che il rider guarda il cielo e benedice le nuvole pesanti che rotolano sulla capitale morale d’Italia. Nella speranza che uno di questi strani dèi che con un colpo di dito sullo schermo possono cancellarli per sempre dalla piattaforma, rivolga benigno loro l’attenzione.
Il progresso è una bella favola ricca di brutti silenzi. Che nessun genitore coscienzioso legge ai bambini prima di dormire. Ma che esistono ugualmente. Ed attendono il rider alla fine della notte ed il cliente alla fine della cronaca di questo processo che sta per iniziare. Vittima e capricciosa divinità si guardano solo un attimo negli occhi, al momento della consegna. Ma in quell’istante, in cui molti cercano di mettere un po’ di ipocrita solidarietà, c’è tutta la narrazione di un mondo instabile che cerca di raddrizzare i torti in tribunale. Dimenticando che sarebbe più facile vincere queste guerre se si iniziasse nelle cucine, più che nelle corti di giustizia.