Negli ultimi trenta anni il salario medio in Italia è rimasto fermo, mentre è cresciuto tra il 20 ed il 30% negli altri Paesi europei. A determinare questo andamento sono stati diversi fattori concomitanti: la persistenza di un elevato tasso di disoccupazione, la crescita del carico di tasse sul lavoro che ha generato l’aumento del cuneo fiscale, l’aumento dell’offerta di posizioni lavorative a minore contenuto di specializzazione. Ovviamente questa stagnazione nel reddito dei dipendenti ha generato una stasi nella domanda di beni e servizi, che a sua volta si è riflessa sulle modeste prestazioni del prodotto interno lordo.
Non è stata messa in campo alcuna politica economica davvero efficace per contrastare tale assetto. Anzi, la regolamentazione del lavoro si è pervicacemente orientata sulla flessibilizzazione delle norme, sino al punto da introdurre i voucher come strumento per consentire il lavoro ad ore nelle professioni intermittenti. Solo da qualche tempo a questa parte si è cominciata a prendere consapevolezza che la stagnazione nei salari è un danno per l’economia, oltretutto in una fase nella quale è ripresa l’inflazione che erode in modo significativo il potere d’acquisto.
Venivamo da un lungo periodo nel quale l’inflazione era diventata un ricordo, per effetto della globalizzazione della produzione e delle politiche restrittive di austerità che hanno prevalso a seguito del dominio del neoliberismo. Le misure che sono state messe in campo più recentemente per restituire potere di acquisto ai lavoratori riguardano il freno al cuneo fiscale, che tende a restituire ai dipendenti parte della perdita di capacità di reddito che è maturata nel corso degli ultimi decenni. Non basta. Questa mossa può essere solo un freno alla erosione, perché la condizione della finanza pubblica italiana non lascia molti spazi di libertà per garantire un robusto ricorso a questo strumento.
Un’accelerazione nel dibattito sul riequilibrio salariale è venuta dalla proposta di direttiva comunitaria sulla introduzione del salario minimo. Perché torna di attualità un potenziale strumento che ormai era stato cancellato dal dibattito politico? La digitalizzazione del lavoro sta introducendo nuovi mestieri che vengono remunerati con una bassissima retribuzione oraria, in un segmento di attività che si sta espandendo e che non conosce ancora le regole del contratto nazionale di lavoro. In Italia di questo tema non si è per niente parlato. Vediamo i riders scorrazzare con i loro motorini nelle città ma non ci interroghiamo per niente sulle conseguenze di queste trasformazioni.
Su impulso dell’Europa ora la questione si pone al centro della discussione politica anche da noi. Finora costituisce l’unico tema che ha determinato coesione nella opposizione parlamentare, ad eccezione di Matteo Renzi. I sindacati storcono il muso, perché pensano che così si riduce il peso della contrattazione collettiva nazionale, ma non si è vista sinora una significativa azione per includere i lavori della digitalizzazione dentro il perimetro delle tutele tradizionali.
Le destre restano ancorate allo strumento della riduzione del cuneo fiscale, e vedremo quali margini ci saranno nella manovra per la legge di stabilità del 2024.
Il nodo assente nel dibattito è la diseguaglianza crescente che si è determinata negli ultimi decenni. La ricchezza si è concentrata in modo intollerabile. Mentre i salari erano al palo, i profitti solo volati in alto. Tornano di attualità temi antichi. Forse è il caso di occuparsene. La stessa coesione sociale può essere messa in discussione. I tumulti francesi di questi giorni ci dovrebbero raccontare qualcosa.