L’Autore, Consigliere Comunale con De Magistris dal 2011, Consigliere Metropolitano Delegato alla tutela della Biodiversità e delle Aree Protette dal 2015 e Responsabile della strategia Ossigeno Bene Comune, è Preside del Liceo Pansini di Napoli.
Mi interrogo sulla sollecitazione del Direttore riguardo al “controllo” dello spazio e mi accorgo come, nel quesito stesso, ci sia il seme dello smarrimento, della consapevolezza dell’urgenza e della vastità del tema.
Vado per titoli e chiedo all’eventuale lettore di essermi complice per i sottintesi e le necessarie omissioni.
L’APPROCCIO
Stiamo vivendo non una, ma LA distopia. Possiamo, dunque avere solo due approcci iniziali:
- 1. Adattativo (distopico)
- 2. Efficace (utopico).
1. L’approccio adattativo parte dalla conservazione dei fini (crescita, accumulazione, consumo) adeguando i mezzi e accettando compromessi temporanei (debito, keynesianesimo, dirigismo). Gli spazi non cambiano ma cambiano i tempi del loro uso (sfalsamento) e i modi (distanziamento, dispositivi).
La ripresa avverrà ripristinando progressivamente lo status quo ante.
Si resta così nella distopia più nera perché il cambiamento climatico non va in vacanza e il modello, una volta rimesso in moto, continuerà a generare ed espandere nuova miseria.
2. L’approccio efficace prende invece avvio dal riconoscimento che le leggi dell’economia non sono ineluttabili e naturali, non sono oggettive, ma poggiano su convenzioni. Tanto reggono fino a quando tali convenzioni sono riconosciute e si praticano. Mutando il fine (non più la crescita ma la compatibilità della specie umana con il Pianeta) deve cambiare anche il modello da perseguire. Questa cosa non avviene in poco tempo, non ha una soluzione rivoluzionaria e catartica: se si arresta immediatamente il sistema, si muore tutti di fame in una settimana e ci si spara addosso fino all’ultimo respiro. La specie umana opererà una torsione in un tempo molto lungo, non per scelta ma per necessità. Con tutti gli spasmi e passando attraverso i deliri di una grave malattia: alla fine, guarirà perché avrà ritrovato l’ “armonia”.
Ovviamente, vivendo noi il nostro tempo, c’è da organizzarsi in maniera concreta ed incrociare gli approcci per vedere se la Storia davvero possa essere modificata da intenzioni umane razionalmente fondate (cosa su cui, dati i precedenti, nutro qualche dubbio).
La prima considerazione da cui partire è che, nello stadio di sviluppo della nostra civiltà, la concezione dominante è che lo spazio – tanto quello urbano quanto quello agrario, industriale, marino, minerario, naturale – sia sostanzialmente inteso come un’estensione di terreno con cui fare soldi.
Tralasciamo quelli industriale, agrario, minerario e marino (per i quali la cosa è facilmente dimostrabile) e consideriamo due fenomeni/spia dell’affermazione di questo pensiero unico:
LO SPAZIO COLLETTIVO
In Italia (ma la cosa riguarda tutti i Paesi e non solo quelli occidentalii ) l’erosione di sovranità degli Stati a favore del capitale finanziario (che, a differenza del capitale industriale, non trae alcun beneficio da dirigismi e sistemi statali di protezione) è stata indotta essenzialmente da due fenomeni: la globalizzazione e la frammentazione dello Stato.
Nella globalizzazione, il riconoscimento di autorità sovrastatali (WTO, FMI, FSB, agenzie di rating …) fa sì che esse si impongano alla Politica, riducendone drasticamente l’ambito d’azione e le possibilità di scelta. Accettare le regole della finanza alla stregua delle “leggi naturali” (pertanto indiscutibili e incontrovertibili) non è cosa che nasca oggi e non è cosa solo liberal/liberista. In Italia, la deriva della prevalenza dell’economia sulla politica nasce già negli anni ‘70, come risposta all’onda lunga della crisi petrolifera del ’73: è il segretario della Cgil Luciano Lama che, nel 1978, cioè nel pieno degli anni di piombo e del travaglio eurocomunista del PCI, con la svolta dell’Eur affermò che «il salario non è una variabile indipendente, introducendo il concetto delle compatibilità economiche nelle rivendicazioni sindacali”ii. Da questo momento storico, il cammino della sinistra europea, porterà coerentemente ad accettare la globalizzazione come assetto mondiale inevitabile, lasciando alla Sinistra stessa il ruolo di mero difensore delle vecchie “aristocrazie” dei salariati/stipendiati. Scaraventate nel vortice della “flessibilità” (il termine è adoperato al posto di “precarietà” dagli innovatori della Sinistra, a partire dal Governo D’Alema nel 1999), le nuove
generazioni assimilano la necessità di barattare un salario (seppur scarso e precario) in cambio di diritti civili e umani: sono così pronte a sentire come proprio l’abito del vortice liberista che ha dominato ideologicamente e strutturalmente la globalizzazione, tanto che oggi il voto operaio è quasi tutto su Lega e destra radicale.
Coerentemente (ancora una volta, coerentemente) l’Italia fu investita in tutti gli anni ’90 dal diffuso processo delle “privatizzazioni” degli asset e delle partecipazioni statali (compresi quelli strategici come l’energia, le comunicazioni e i trasporti) di cui il più fiero alfiere fu proprio il leader del maggior partito della sinistra, Bersani.
In effetti, nel campo dell’assetto Costituzionale, il riflesso di una tale situazione è stato letteralmente abbacinante soprattutto nel denso periodo delle riforme “regionaliste” ed “autonomiste” che vanno dalle leggi Bassanini (1997) alla riforma del Titolo V della Costituzione (2001). Frammentati i centri di decisione moltiplicandoli (regioni) e incrementati anche i soggetti politicamente “irresponsabili” (i Commissari di Stato, i cui ingenti debiti ricadono sui Comuni), si realizzava la “privatizzazione” degli Enti pubblici: con il nuovo articolo 81 della Costituzione (L. 1/2012), quella che doveva essere la “sussidiarietà” tra gli Enti diviene di fatto un regime di “concorrenza” dove tutti, dallo Stato alle Regioni, dalle Province ai Comuni, dai Parchi nazionali alle Scuole, devono rispettare il pareggio di bilancio (PSC, EU, 1997 ) declinato nella sua forma, non unica né necessaria, ma sicuramente quella più ossessiva e vessatoria del Fiscal Compact.
Abolita la solidarietà istituzionale tra gli Enti della Repubblica, ogni spazio pubblico (strade, parchi, scuole, mercati, ospedali, tribunali, ferrovie,…) diventava “spazio da mettere a profitto”. I servizi ai cittadini diventavano la debole variabile dipendente di un’equazione la cui una costante erano i soldi, il contenimento della spesa.
E’ ovvio che la Politica, in questo scenario ha due ipotesi di lavoro:
a) adeguarsi alla contabilizzazione dello spazio come “risorsa finanziaria infrastrutturale”;
b) trovare vie di liberazione e di umanizzazione per restituire allo “spazio” il suo significato biologico di “terreno agibile per le esigenze materiali dell’individuo” ed il suo significato antropologico di “luogo agibile per esercitare le esigenze collettive cioè relazionali, etiche, culturali”.
In attesa della “rivoluzione totale e bellissima”, a Napoli il Comune è andato avanti nell’elaborazione giuridica del concetto “bene comune”, inteso come bene non disponibile (infungibile) ad essere distratto dalla finalità della “utilità sociale”iii.
Uno spazio che, pur in uno scenario di privatizzazione del pubblico, non ne è assorbito e non è, dunque, contabilizzabile nel “bilancio economico e finanziario”; per la loro natura, i “beni comuni” sono apprezzabili e ponderabili solo all’interno di un “bilancio sociale” unicamente tarato sull’utilità, gestione e fruibilità collettiva. Al riguardo, mi piace rifarmi al contributo del Prof. Carmine Piscopo apparso recentemente su questa stessa rivista e a cui rimando per quanto riguarda le proposte concrete, non fosse altro che, come Consigliere Comunale di Napoli, ho contribuito nel mio piccolo ad elaborarle, le ho condivise e votate.iv
Ovviamente, la liberazione dello “spazio” passa sia attraverso una ridefinizione radicale e spietata del nostro assetto istituzionale (il putiferio di sovrapposizioni di competenze tra gli enti e la camicia di forza delle competenze indotti dalla riforma del Titolo V sono forse il male maggiore di questa stagione della nostra storia) sia attraverso l’impugnativa e la ridefinizione della nostra posizione all’interno del sistema finanziario internazionale per la ridiscussione tanto dei meccanismi quanto del concetto di debito. Da questo punto di vista, il Covid-19, per quanto tragico, può costituire un’opportunità strategica.
LO SPAZIO NATURALE
Analogo destino di trasformazione in merce (e, quindi, in feticcio) è toccato al nostro spazio naturale, quello in cui, a nostro dire, abbiamo relegato quella che noi consideriamo ”Natura” (intendendo con essa tutto ciò che non sia di origine umana, diciamo che la Natura per noi è il “disumano”).
Qui il punto d partenza, il vulnus da sanare, sta nello stesso “spirito delle leggi”.
1. La competenza sulle politiche ambientali è stabilita come esclusiva delle Regioni (art. 117 della Costituzione). Ovviamente, la cosa è risibile. Infatti, sessa presuppone possibile che sulla riva destra del Garigliano la competenza sia del Lazio e sulla sinistra della Campania e che il cucuzzolo del massiccio del Matese sia, fin qui del Molise e fin qui della Campania, con tanto di politiche e strumenti di intervento differenziati se non divergenti. Ovviamente, non può essere così. Ecco allora il moltiplicarsi di competenze (bacini, consorzi, parchi, associazioni di comuni, società di gestione….) con una congestione di interessi e complessità di procedure in cui poco o niente riescono ad essere considerati le ragioni della Scienza e gli interessi di piante ed animali e della tutela del suolo.
2. Si è – per fortuna o per grazia di Dio – arenato alle sue battute finali il progetto di legge per la riforma della legge quadro 394 del 1991 grazie alla caduta del Governo Gentiloni , disegno in cui era prevista;
a. l’autosufficienza economia dei parchi (cioè, per proteggere la Natura, devo aumentare la pressione antropica perché mi servono i soldi dei turisti: non è la Natura il fine, ma fare i soldi);
b. il conseguente depotenziamento della componente tecnica della governance a favore della politica locale.
Resta però il problema nazionale della vergognosa destinazione di fondi per la gestione delle aree protette in Italia: sostanzialmente 1,35 per abitante all’anno (meno di 100 milioni). Per quanto sia un conto difficile da fare (fondi di diverso tipo, fondi a progetto, fondi rotazione, finanziamento ordinario….) quello che spaventa è l’ordine di scala delle risorse.
3. Non va meglio per le aree fortemente inquinate e da recuperare: l’enorme bacino dei Regi Lagni, è una delle aree più inquinate e idrogeologicamente dissestate del Mediterraneo, un’area che vede anche insediamenti urbani di notevoli dimensioni tra Marano e Pozzuoli, tra Giugliano e Castelvolturno, tra Sarno ed Acerra, in cui le opere di bonifica si sono infrante ed arenate tra il muro della Regione, le competenze del Bacino dell’Appennino Meridionale, le Province di Caserta e Salerno, la Città Metropolitana di Napoli, una miriade di Comuni, consorzi di gestione, società affidatarie…. (Ma questo è un discorso che sarebbe bello sviscerare e, anzi, caro Direttore, apriamo un focus su Regi Lagni e Sarno? )
Torna qui la condanna della frammentazione delle competenze, della miriade di “poltrone” che la politica si è assegnata, dell’esclusione sostanziale dell’accoglimento dei punti di vista della Scienza. Un disastro che oggi, con questa bislacca governance, con questo “Carro di Tespi” a cui è stata ridotta la gestione dello “spazio geografico” in Italia, richiederebbe qualcosa come 30 miliardi di euro per essere sanato (al netto della corruzione e delle percentuali da dare alla camorra) da spendere in lavori urgenti di risistemazione idraulica e rigenerazione del suolo. Un lavoro che ESIGE un’idea UNITARIA di ripensamento di questo particolare spazio antropico e che non può essere dato in pasto alla canea di interessi e particolarismi locali.
Ora vorrei concludere ottimisticamente, pur avvisando di non aver posto alcune altre questioni rilevanti per ovvi motivi di tempo (e di “spazio”…) e di rispetto dell’eventuale lettore.
Lo spazio è una “cosa” dove si svolgono le “cose”; praticamente è un contenitore che, come nel caso dell’acqua, dà forma (direbbe Aristotele, “forma sostanziale” alle cose”) cioè le fa essere quello che sono. Sono convinto che la pressione delle “cose” indurrà una spaccatura delle pareti, un’esplosione di questo contenitore modellato sul profitto.
E le cose, queste sì, le facciamo noi. Non vedo altra soluzione che il ripristino del primato della Politica tanto sulla finanza quanto sul populismo: uno non vale uno. Un ministro che libera 350 mafiosi non vale come un ministro che ha fatto la lotta alla mafia. Un Presidente di Regione che non fa camminare i Contratti di Fiume o che non approva un Piano Regionale dei Rifiuti, non vale un Presidente di Regione che queste cose le ha fatte; un Sindaco che svende alla Gori il suo Comune, non vale un Sindaco che – rispettando l’esito di un referendum – dichiara l’acqua bene comune e crea una Società Speciale che reinveste gli utili nel ciclo delle acque.
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[i] Un interessante contributo, ricco a sua volta di una interessante biblio/sitografia https://www.limesonline.com/cartaceo/la-finanza-occidentale-domina-il-mondo
[ii] Cfr. https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-04-14/precedenti-vittorio-ciampi-081206.shtml?uuid=AbCE20mH
[iii] V. Alberto Lucarelli “Beni comuni. Dalla teoria all’azione politica”, Dissensi, 2011.
[iv] https://www.genteeterritorio.it/per-una-discussione-sulla-citta/