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Silvio Berlusconi: una vita ad personam

by Pietro Spirito
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“L’Italia è il Paese che amo”. Era il 26 gennaio del 1994, e Silvio Berlusconi annunciava, con una coreografia curata in ogni minimo dettaglio, la sua discesa in campo. Era stato, sino ad allora, un imprenditore di successo, all’ombra del sistema politico che era stato spazzato via con Tangentopoli. I suoi referenti non appartenevano più alla scena pubblica e, con il coraggio che ha sempre caratterizzato la sua vita, aveva deciso di scendere in campo, come lui stesso aveva detto.

Gli avversari non avevano compreso nulla sulle caratteristiche di questa mossa. Non era certo il tentativo disperato di chi stava nell’angolo. Non era nemmeno la caricatura della politica nobile che poteva continuare a guardarlo dall’alto verso il basso.

Silvio Berlusconi aveva capito che esisteva nel profondo una Italia di centrodestra che era priva di rappresentanza politica. La Democrazia Cristiana ed il pentapartito avevano rappresentato un freno verso lo slittamento a destra del quadro politico, inevitabile in presenza di un forte Partito Comunista.

Innanzitutto, Berlusconi decise, ancor prima di scendere in campo, di sdoganare la destra di Gianfranco Fini. Alla tornata elettorale amministrativa del 1993 Fini, ancora segretario del Msi, si candidò contro Rutelli e ottenne l’appoggio del Cavaliere. Fini perse, non di molto, ma incassò lo “sdoganamento”. La destra usciva dal ghetto.

Chi faceva politica giudicava le azioni di Berlusconi con le categorie della politica. Questo era l’errore principale. Il vero obiettivo del Cavaliere era invece il mantenimento e lo sviluppo dei propri interessi economici. Tutto il resto era corollario che serviva ad arginare potenziali aggressioni all’impero che aveva costruito in decenni.

La costruzione del suo ingresso in politica ha sovrapposto l’interesse privato con l’interesse pubblico, e da questo punto di vista ha incrociato una aspirazione nazionale che rappresenta ormai la maggioranza degli elettori. Il suo vasto consenso, raccolto nell’arco di decenni, sta esattamente nella capacità di impastare con una ricetta originale i fatti propri con le vicende della nazione.

Era un pensiero peraltro antico nelle democrazie occidentali. Nel 1953 Charles Erwin Wilson, l’allora presidente di GM, venne nominato da Eisenhower come Segretario alla Difesa. Quando gli venne chiesto, durante le audizioni al Comitato del Senato per le Forze Armate, se come Segretario della Difesa poteva prendere decisioni avverse agli interessi della General Motors, Wilson rispose affermativamente, ma aggiunse che non poteva concepire una tale situazione “perché per anni ho pensato che ciò che era buono per la nazione fosse buono per la General Motors e viceversa”. In seguito questa dichiarazione venne citata in modo diverso, lasciando intendere che Wilson avesse detto, “Ciò che è buono per la General Motors è buono per la nazione”.

Ma questo in sostanza era il principio basilare che ha guidato anche la vita politica di Silvio Berlusconi: “ciò che è buono per il Gruppo Fininvest, è buono per la patria”. Non aveva neanche bisogno di dirlo, perché prima della legge Mammì aveva combattuto per la libertà della sua impresa come libertà di tutti.

Era martedì 16 ottobre 1984 quando gli agenti della Guardia di Finanza e i funzionari della Escopost occuparono le sedi Fininvest di Torino, Roma e Pescara che ritrasmettevano in interconnessione i programmi di Canale 5, Italia 1 e Rete 4. Sequestrarono le videocassette che contenevano le registrazioni dei programmi sigillando i cosiddetti ponti radio che consentivano ai canali Fininvest di trasmetterli in tutta Italia violando il monopolio Rai sulle trasmissioni nazionali che era stato ribadito dalla Corte Costituzionale. Si arrivò poi ad una regolamentazione televisiva cucita sulla pelle dell’interesse privato.

Le leggi ad personam sono state il tratto caratteristico dominante di Silvio Berlusconi nella sua azione di statista: quella era la stella polare che stava in testa al suo ingresso in politica. Non era nemmeno concepibile non tutelare le proprietà e gli interessi, secondo un moderno atteggiamento verghiano.

Ai politici della vecchia generazione non era chiaro che nella pubblica opinione tale atteggiamento di mescolanza tra interesse pubblico ed interesse privato era più condiviso di quanto non si potesse credere. Il ricco tycoon era peraltro considerato più libero di rappresentare gli interessi di tutti, rispetto ad una classe politica che si era screditata nei passati decenni.

Non aveva bisogno di arricchirsi, perché aveva già ormai raggiunto tutti i traguardi. Sarebbe stato più generoso persino verso gli altri. La politica passava, con Silvio Berlusconi, dalla dimensione della organizzazione partitica alla dimensione personalistica. Questo principio non si è affermato solo dentro Forza Italia, il partito che ha fondato. Si è diffuso dentro l’intero scenario istituzionale, scardinando la struttura collettiva dell’azione politica per ricostruirla dentro le scelte individuali del leader.

I valori repubblicani sono cambiati profondamente. Sta a ciascuno giudicare se in meglio o in peggio. Secondo me è iniziata una parabola regressiva che ha distrutto il senso della collettività. Era l’allenatore non di una squadra, ma di un solo individuo, se stesso.

Dovremo interrogarci ancora, dopo la morte di Silvio Berlusconi, sul significato del leader nella società contemporanea e sul senso della parola liberale, che ha subito, nel corso di questi quasi trent’anni, una torsione che ne ha completamente snaturato le caratteristiche.