Pare che ormai ci siamo. Le tanto vituperate Vele di Scampia, sinonimo di degrado sociale e assurte a simbolo di Gomorra, stanno per essere definitivamente abbattute.
L’amministrazione comunale di Napoli ha aggiudicato recentemente la gara per la progettazione dell’abbattimento delle Vele rimanenti (A, C e D), mentre per la Vela B si bandirà un concorso di progettazione internazionale finalizzato alla riqualificazione dell’edificio esistente, cercando di eliminare il degrado delle componenti edilizie, la bonifica e il risanamento del complesso, la dotazione di nuove finiture durevoli e funzionali, una nuova vivibilità degli spazi comuni, nonché la flessibilità delle soluzioni impiantistiche aperte verso le future riconversioni dell’edificio.
È l’occasione propizia per riflettere serenamente, ed a ragione veduta, di una vicenda che nel corso degli ultimi quarant’anni si è colorata di tutte le sfumature possibili delle utopie sociali e politiche che hanno animato la scena culturale del nostro Paese.
Ancora oggi parlare del quartiere Scampia significa parlare delle Vele, monumentali architetture divenute loro malgrado sinonimo di alienazione urbana, disagio e conflittualità sociale, come se gli stessi edifici avessero assorbito su di sé l’intera gamma degli aspetti negativi di quella che, con i sui 110.000 abitanti, risulterebbe essere la quarta città della Campania.
È d’obbligo dare il giusto preso all’interessantissimo iter progettuale seguito dall’architetto Francesco (Franz) Di Salvo, che risulta perfettamente congruente con il clima culturale e architettonico degli anni ‘60.
All’indomani della legge 167/62, promulgata, a seguito di una forte richiesta di alloggi popolari, per l’acquisizione di aree cittadine fabbricabili da dedicare all’edilizia economica e popolare, si riaccese l’annoso dibattito sociologico/architettonico riguardante l’elaborazione dei modelli teorici di riferimento, che si diressero univocamente verso quella concezione, cara anche a Le Corbusier, volta a ridurre la dimensione dell’alloggio a quella minima indispensabile per l’abitare e dove l’abitazione stessa diviene una vera e propria macchina dell’abitare: Caratterizzata da uno sfruttamento massimo dello spazio architettonico per poter contemperare il contenimento dei costi di produzione con i bisogni della vita umana.
Non ne scaturirono solo le Vele, è bene ricordarlo, ma anche gli altri grandi rioni ghetto come il Corviale a Roma, lo Zen a Palermo, il Librino a Catania.
Il linguaggio megastrutturista adottato dall’architetto Di Salvo, veniva declinato contemporaneamente in quegli anni in tutti i paesi occidentali. Nella progettazione delle Vele fu particolareggiato, ispirandosi chiaramente ad alcuni modelli ed immagini evocative della Napoli storica: gli edifici a gradonate dovevano riproporre le colline ‘artificiali’ della città; i diversi moduli di alloggio e la diversità tipologica rivisitavano l’idea della città antica stratificata, i collegamenti e i ballatoi tra i blocchi richiamavano la memoria del vicolo di Napoli con i suoi giochi di luce ed ombra e il suo spazio stretto di relazione.
Il risultato formale, fermandosi ai soli aspetti grafico compositivi è certamente interessante e degno di menzione ma probabilmente, nella delicata fase di passaggio dalla filosofia progettuale iniziale (città di Utopia) alla realizzazione vera e propria dell’opera, si precipita invece nel baratro della Distopia.
È impietoso il confronto con le architetture simili effettivamente costruite in quegli anni, come il complesso residenziale di Villeneuve Loubet, a metà strada tra Nizza e Antibes, in Francia, su progetto dell’architetto francese André Minangoy.
Dalla letteratura in materia si apprende che il progetto di Franz di Salvo, in fase esecutiva, venne di fatto stravolto dall’impresa appaltatrice che, certamente per ragioni di convenienza economica, riuscì a modificarlo eliminando quegli elementi fondamentali atti a garantire la qualità della vita dei suoi abitanti. Non trovarono più spazio le attrezzature, il verde di quartiere, le aree di aggregazione, servizi, centri scolastici, religiosi, commerciali e culturali. Gli stessi spazi comuni inizialmente previsti ogni sei piani a ridosso degli ascensori non vennero realizzati e invece della struttura prefabbricata a cavalletto progettata da uno dei più grandi strutturisti italiani Riccardo Morandi ispirata alle opere di Kenzo Tange, fu realizzata una struttura trilitica prefabbricata.
Tale modifica in particolare comportò la diminuzione della distanza tra i blocchi abitativi da 10,80 metri ai 8,20 metri attuali. I pianerottoli di collegamento, invece, non vennero realizzati in materiale leggero e trasparente, ma in cemento, impedendo ulteriormente alla luce e all’aria di raggiungere le abitazioni. La stessa parabola che identificava il profilo a ‘vela‘ fu sostituita da uno ziggurat e da facciate chiuse che hanno condizionato la forma e la luce degli spazi interni.
A distanza di quarant’anni l’intera operazione è risultata un insuccesso. La poetica architettonica utilizzata all’epoca appare ai giorni nostri ingenua, a tratti manzoniana nel suo tentativo da parte delle elite professionali di inculcare dall’alto i concetti di bello e buono al popolo bisognoso.
Cosa ci ha insegnato questa storia indiscutibilmente esemplare del cronico sottosviluppo di certe parti del nostro Paese?
Certamente che l’idea di riprodurre artificialmente l’equilibrio sociale del vicolo napoletano, stratificatosi e consolidatosi in appena qualche decina di secoli, è destinata al sicuro fallimento.
Probabilmente che anche la migliore Architettura, quella con la A maiuscola, con buona pace dei Maestri, da sola non basta a portare a compimento alcun procedimento di rigenerazione urbana e sociale, di cui forse riesce ad esserne al massimo il risultato.
Indubbiamente che occorre la Politica, questa si con la maiuscola, intesa come tékhnē di governo dei processi di gestione e di sviluppo.
Di arch. Giulio Espero