Nascita, Crescita, Fama Declino e Caduta: i titoli dei cinque episodi della prima docuserie italiana prodotta dalla piattaforma streaming Netflix che, partita senza troppi clamori lo scorso 30 dicembre, sta avendo una notevole eco mediatica soprattutto a cura degli addetti al settore.
SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano scritta da Gianluca Neri, Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, con la regia di Cosima Spender, racconta attraverso interviste e filmati di repertorio, la storia di San Patrignano, comunità terapeutica di recupero per tossicodipendenti fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978, in un podere a Coriano, in provincia di Rimini.
L’arco temporale di riferimento, è bene chiarirlo, termina con la morte del fondatore avvenuta il 19 settembre 1995 e pertanto non contempla le vicende della comunità sino ai giorni nostri.
Di cosa parliamo? Parliamo della storia di quella che, per quasi un ventennio, è stata la più grande e importante comunità di recupero per tossicodipendenti d’Europa, San Patrignano, dove nel corso degli anni sono transitati una decina di migliaia di ragazzi afflitti da quella che allora si chiamava la “scimmia”.
Parlare di San Patrignano, SanPa per usare un nomignolo tanto in voga tra gli ospiti, significa necessariamente parlare del suo fondatore Vincenzo Muccioli. La storia dell’uomo e della sua creatura sono così inestricabilmente intrecciate che non si riescono a distinguere le singole vicende, cosicché dare un giudizio sul personaggio inevitabilmente diventa un giudizio sulla comunità e viceversa.
Ma dare giudizi definitivi appare veramente temerario tanto è complessa, contraddittoria e sfaccettata la storia narrata. Che, in forza di un principio storico imprescindibile, assurge a fattispecie emblematica della storia recente della società e della politica di questo paese.
Luci ed ombre appunto, non solo di San Patrignano ma di quello che siamo stati rispetto al problema della tossicodipendenza dalla fine degli anni Settanta sino alla fine degli anni Novanta.
Quello che oggi è un problema di cui la società e la politica bene o male, anche con scelte a volte poco efficaci o ancora ideologicamente bloccate, si fanno carico anche attraverso la prevenzione, nel 1978, quando si insediarono i primi “drogati” (perché così li chiamavamo) nel podere in provincia di Rimini di proprietà della famiglia Muccioli, nessuno, men che meno i politici si voleva interessare del problema o ne era culturalmente capace. Il consumo di droghe, da fenomeno alternativo di nicchia di derivazione ideologica postsessantottina, era diventato un fenomeno di massa dopo l’invasione di eroina che aveva inondato l’Europa. La fase dello sballo edonistico e pseudo culturale era sta inaspettatamente sostituita della dipendenza disperata e abietta. Caterve di ragazzi in preda ai deliri tossici, incominciarono a rubare e prostituirsi pur di procurarsi il denaro per la successiva dose. Ma soprattutto cominciarono a morire come mosche in seguito ad overdose.
Lo Stato italiano, ma direi il Paese in generale, non era in quel momento in grado di dare una risposta. Semplificando: da una parte c’era la politica che ne vedeva soltanto gli effetti in temine di ordine pubblico, e quindi galera per tutti, dall’altra la Chiesa cattolica che invitava i genitori a pregare di più e ad una vita meno laica per così dire. In mezzo, la disperazione delle famiglie che non sapevano dove andare a sbattere la testa.
In quel vuoto di abiezione, dolore e solitudine sociale, Vincenzo Muccioli decide di farsi carico del problema e trasforma nel 1978 un podere di famiglia abbandonato da tempo in una azienda agricola destinata, attraverso la cura del lavoro, al recupero di chi era inesorabilmente afflitto dal problema della tossicodipendenza.
La serie racconta proprio questo, perlomeno nella prima parte. Duro lavoro manuale, responsabilizzazione, senso di condivisione e comunità, massimo dieci sigarette al giorno e, se sgarravi, un paio di amorevoli “sganassoni” da buon padre di famiglia ti avrebbero riportato sulla retta via.
I risultati non tardarono ad arrivare e ben presto fuori San Patrignano si fece la fila. Non solo di disperati, ma anche di benefattori (pare che la famiglia Moratti nel corso degli anni abbia devoluto circa trecento milioni di euro alla comunità).
Il ritratto che ne viene fuori di Vincenzo Muccioli è un chiaroscuro caravaggesco, soprattutto quando la vicenda della comunità viene sporcata da tristi episodi di natura delittuosa. Pestaggi punitivi, violenze verbali e fisiche, suicidi sospetti ed addirittura l’orribile omicidio di Roberto Maranzano, un ospite particolarmente debole.
A chi vorrebbe dare una risposta manichea alle domande: Vincenzo Muccioli santo o despota, San Patrignano inferno o paradiso, la docuserie di Netflix ricorda che non siamo su Facebook o allo stadio. Più che cercare risposte, gli autori hanno indagato sulle domande.
La disintossicazione di tanti ragazzi è giustificata da metodi in certi casi disumani? Quanto male si è disposti a fare per fare del bene?
Vincenzo Muccioli un santo, un uomo che ha avuto il coraggio di farsi carico di ragazzi che nessuno voleva, oppure un megalomane, uno che ha fatto di tutto pur di creare un vero e proprio culto della sua persona?
Ogni spettatore si darà la sua piccola risposta, ma molte rimarranno le incertezze.
Una certezza però ci pare possa essere condivisa. Non deve più accadere che la Stato nel suo complesso (cittadini, politici e istituzioni), lasci da solo chi ha problemi di tale portata, che non si faccia “comunità” esso stesso.
SanPa: Luci e tenebre di San Patrignano è un prodotto televisivo che consigliamo di vedere. Per il valore intrinseco dell’opera, per ricordare a noi adulti cosa siamo stati e per illustrare ai ragazzi l’altra faccia dello sballo senza moralismi.