Dall’età post-napoleonica a tutt’oggi la conquista e la difesa delle costituzioni democratiche è stata prerogativa dei settori progressisti della società e della politica. In età romana no, stava nelle mani della oligarchia senatoria. Erano i conservatori i difensori della costituzione; le plebi, quando entravano nelle dinamiche politiche domandando riforme a proprio vantaggio, trovavano nelle istituzioni repubblicane un freno, se non un muro invalicabile, e tendevano conseguentemente a sovvertirle. Basterebbe già solo questa banale considerazione per dire quanto sia ingannevole figurarsi ricorsi storici basati su analogie superficiali. Non è pertanto questo l’intento di chi scrive. Tuttavia, quanto racconteremo qui di seguito una qualche riflessione sui tempi attuali può suscitarla. Proviamoci!
Primo secolo a.C., la Repubblica romana scricchiola. È il secolo dei Mario e Silla, della Guerra Sociale contro i confederati italici e della Guerra Servile di Spartaco, delle mai sopite guerre tra Occidente e Oriente, di Pompeo e Crasso, di Cesare e di Ottaviano.
Silla, campione dell’oligarchia senatoria, dopo aver mietuto successi nelle guerre d’Oriente contro Mitridate, re del Ponto, rientra a Roma, dove affronta e sconfigge i ‘populares’ seguaci di Mario, intanto morto nel corso del suo settimo ed ultimo consolato (86 a.C.). In questi frangenti – sia in Oriente contro Mitridate, sia a Roma contro i mariani – il giovane Catilina combatte nelle fila di Silla. È molto coraggioso e si fa onore. Otterrà incarichi di governo rilevanti e ne farà cattivo uso. Di altolocata famiglia aristocratica, è spregiudicato, privo di senso etico, campione di vizi pubblici e privati, dilapida le ricchezze sue e della sua famiglia. Viene accusato di frodi, violenze sessuali, omicidi e concussione. La classe senatoria lo ripudia e allora lui si fa campione delle plebi: “Non si trova in Roma un difensore dei poveri più fidato di me, dato che sono povero anch’io! Ai miseri, agli oppressi non conviene credere alle promesse dei privilegiati. Chi ha debiti verso lo Stato o verso singoli patrizi si affidi a me. Sono io per primo un miserabile e al tempo stesso non ho paura!”. Queste parole gli furono attribuite da testimoni presenti nella riunione in una casa privata in cui egli le avrebbe pronunciate. Ve li aveva infiltrati Cicerone, che gliele rinfacciò nella sua prima ‘catilinaria’ (8 novembre 63 a.C.).
L’anno precedente, nel 64 a.C., Catilina aveva provato a candidarsi a console di Roma, ma il Senato lo aveva ritenuto incandidabile in quanto sotto processo per concussione; diciamo perché impresentabile a causa di un palese conflitto d’interesse. In quella stessa tornata elettorale, contro di lui, si era candidato, paladino delle istituzioni repubblicane, Cicerone che, restato senza competitore, fu quindi eletto console.
Catilina non accettò l’interdizione. Era sicuro che nelle urne avrebbe vinto lui ed attribuì il veto a candidarsi ad una frode orchestrata dalla casta a danno suo e del popolo. Ordì quindi la sua celebre congiura antirepubblicana. Mise su un piccolo esercito di rivoltosi e lo fece accampare tra Fiesole ed Arezzo, mentre lui, dentro Roma, organizzò con i suoi seguaci l’assalto al Capitol Hill dei suoi tempi. Né mancò di tramare per far assassinare Cicerone dai suoi sicari. La rivoluzione da lui ordita sarebbe scoppiata tra il 27 ed il 29 ottobre del 63 a.C., e sarebbe stata preceduta di qualche giorno dall’uccisione del celebre oratore.
Cicerone, sfruttando i suoi poteri consolari e la sua eminente competenza giuridica, puntò sulla via giudiziaria per mettere definitivamente fuori gioco il demagogo. Raccolse prove inoppugnabili della congiura, testimoniali e documentali, e chiamò a giudizio Catilina in Senato. Ai senatori – siamo appunto all’8 novembre del 63 – dimostrò che loro erano lì, ancora in vita, grazie alla sua azione, con la quale aveva sventato la sedizione di Catilina. Ma soprattutto lui aveva salvato la Repubblica. Catilina, spavaldo, si presentò in Senato, minaccioso, e i senatori tentennavano. Cicerone tuonò: “Qui, Padri Coscritti, qui, tra le nostre fila, in questo consesso – il più austero, il più insigne del mondo – vi sono uomini intenti a progettare lo sterminio di noi tutti, la rovina di questa città e, di conseguenza, del mondo intero!”.
Catilina, sconfitto in giudizio, abbandonò Roma, raggiunse i suoi in Etruria e tentò di marciare su Roma. Fino all’ultimo si autorappresentò come paladino delle plebi contro le élite. Nel ‘62 fu intercettato dall’esercito romano a Pistoia e costretto al combattimento. Prima della battaglia in cui perse la vita così arringò i suoi militi: “Miei soldati, non è il medesimo bisogno a incombere su di noi e su di loro: noi combattiamo per la patria, per la libertà, per la vita; loro per il potere di pochi”.
Secondo Sallustio Catilina non fu un avventuriero senza seguito, le sue ambizioni ed il suo progetto avevano un fondamento politico. Le plebi romane, le periferie della società, credevano in lui: “Non era sconvolta solo la mente di coloro che erano i complici della congiura, bensì l’intera plebe, desiderosa di cambiamenti, approvava i propositi di Catilina. Infatti in uno Stato i poveri invidiano sempre i ricchi ed esaltano i malvagi; odiano le cose antiche, desiderano vivamente le novità; a causa dell’avversione alla loro situazione aspirano a sovvertire ogni cosa; si nutrono di tafferugli e di disordini…”
Le plebi erano pronte alla rivolta, mancavano però di un leader, di un dux se volete, e lui si sentiva pronto. Ecco il suo pensiero: “La Repubblica ha due corpi: uno fragile, con una testa malferma; l’altro vigoroso, ma senza testa: non gli mancherà, finché vivrò”. Il corpo fragile era l’élite senatoria, quello vigoroso ma senza leader la plebe. Lui si sarebbe messo alla sua testa.
Cicerone si vantò per il resto della sua vita di aver salvato la Repubblica non con la forza delle armi, ma con quella delle leggi – “Cedant arma togae!” – ma le strutture sociali e le istituzioni della Repubblica non reggevano più. Roma, diventata caput mundi, non poteva governare la sua nuova dimensione di potenza planetaria con la testa malferma del suo Senato e con le sue girevoli magistrature esecutive.
Venne così il tempo di Cesare, al quale per un po’ l’ormai anziano Cicerone guardò con interesse. Ma Cesare – e siamo alle idi di marzo del 44 a.C. – subì egli stesso l’assassinio per mano di congiurati, che stavolta non avevano cospirato per abbattere le istituzioni repubblicane, bensì per restaurarle. Seguì la guerra civile tra Lepido ed Antonio da una parte e dall’altra il giovanissimo, ancora imberbe, pronipote di Cesare, Ottaviano, che si propose come il difensore del Senato. Cicerone aderì senza riserve al nuovo leader, a sostegno del quale e contro Antonio scrisse le Philippicae. Ma sarebbe stato proprio Ottaviano, a dispetto delle sue illusorie aspettative, colui che avrebbe messo fine alla secolare storia della Repubblica Romana. Quando il vecchio retore se ne rese conto, si lasciò catturare senza opporre resistenza dai sicari di Antonio che lo giustiziarono. Era il 7 dicembre del ‘43, lui aveva sessantatré anni. ‘Ottaviano – scrive Lidia Storoni Mazzolani – non alzò un dito per salvarlo’.
Le istituzioni repubblicane uscirono da quel secolo svuotate di poteri reali; l’oligarchia senatoria ne uscì socialmente rafforzata. Tutto cambiò politicamente e non cambiò nulla socialmente. Tomasi di Lampedusa, dov’è la tua penna?