Non intendo parlare di Aretha Franklin, della sua vita, delle sue vicende personali ed artistiche, della sua lotta contro l’obesità e del suo doloroso percorso finale contro il cancro. Tutto già detto. Ma c’è un aspetto che ne vorrei sottolineare, anche questo non nuovo ma importante da ripercorrere: il suo essere femminista e fieramente orgogliosa del suo essere nera.
Per fare ciò non posso che partire da Respect, canzone incisa nel 1965 da Otis Redding e ripresa da Aretha nel 1967. Nella versione di Redding si parla di un uomo che chiede rispetto alla propria donna, con la Franklin diventa un inno contro la discriminazione razziale e sessista. Alcuni passaggi:
ciò che chiedo/ è un po’ di rispetto quando torni a casa/…mi sono stufata/ di continuare a provare/ stai per finire di prendermi in giro/ e io non sto mentendo/ rispetto quando torni a casa/ o potresti entrare/ e scoprire che me ne sono andata/ devo avere/ un pò di rispetto.
Il testo del brano “chiede” rispetto, ma la sua voce dice: “lo pretendo”. E sentire quella bellissima donna ordinare a gran voce “respect” con tanta forza, diede una marcia in più a tutte le afroamericane e alle donne che videro in lei un esempio, un nuovo modello di femminilità.
Con questa canzone la giovane cantante di gospel, figlia di un pastore battista conquistava il rispetto per sé, e per tutte noi. Erano anni di grandi lotte e grandi cambiamenti che spesso passavano attraverso atroci vicende di sangue. Erano anni in cui anche le canzoni svolgevano un ruolo sociale, non erano solo intrattenimento e marketing. Dietro le appassionate parole della canzone c’era il pastore King, c’era Berkley, c’era il Vietnam. E se Aretha rappresentava sulla scena pubblica la pasionaria, ognuna di noi, nel nostro piccolo, compiva qualche passo in avanti. Un piccolo passo per ogni donna, un grande passo per l’umanità, parafrasando una celebre frase.
Spesso il testo di una canzone sembrava, in maniera sorprendente ed inaspettata, dare voce alle aspirazioni di ciascuna di noi. Era quindi possibile ribellarsi agli stereotipi della brava mogliettina, dell’attenta maestrina, dell’angelo del focolare dedito alla cura? Forse sì, forse era possibile dare voce alla propria personalità, chiedendo rispetto per sé stesse, al di là del ruolo che la famiglia e la società imponeva. Erano gli anni di Franca Viola che chiedeva rispetto per la propria sessualità violata. Non tutte siamo riuscite ad essere quello che volevamo ma la grande lezione degli anni ’60 è stata quella di farci conoscere altri modelli, proporci delle figure alternative di riferimento.
Il rispetto, oggi, per le nostre figlie è scontato, eppure rimangono rigurgiti di violenza e mancanza di rispetto di una inaudita ferocia.
Cosa lascia Aretha Franklin alle sue sorelle? Tanto, ed a noi piace pensare che in un altrove sconosciuto Aretha (ma l’etimologia del nome potrebbe essere dal greco aretè, virtù?) canti, con la sua poderosa voce, chiedendo per sé e per le altre anime Respect.
di Piera De Prosperis