Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, (minimum fax 2019) di Remo Rapino fa parte della terna di romanzi che concorrono per il Premio Napoli. Già vincitore della 58esima edizione del Premio Campiello, il romanzo di Rapino raccoglie e sintetizza una serie di suggestioni e spunti letterari. Cominciamo dall’impianto narrativo. Liborio Bonfiglio è un abruzzese (anche se il paese di origine non è mai indicato), che vive tutte le principali vicende del Novecento. Nato nel 1926 Liborio conosce il fascismo, la guerra e le sue distruzioni, la violenza nazista e il coraggio dei partigiani, la ricostruzione e l’emigrazione, la crisi economica ed il ’68, il manicomio, il ritorno al paese. La storia personale e la Grande Storia viaggiano parallele. Gli eventi li apprendiamo direttamente dal narratore che in prima persona ci racconta, dal suo punto di vista, quello che accade e che di riflesso gli accade. E fin qui basterebbe ricordare Nievo con Storia di un ottuagenario o la Morante con La Storia, per citarne alcuni. Tuttavia Liborio è un matto, un cocciamatte, un semplice, un ingenuo che legge gli eventi con l’occhio meravigliato e sorpreso di chi si trova tra gli eventi senza spiegarseli fino in fondo. Una sorta di Forrest Gump che, a differenza del collega americano, perde presto la madre, ha un amore non corrisposto, ha la consapevolezza che il suo destino è marcato da segni neri. La sua vita non è come una scatola di cioccolatini non c’è mai nulla di dolce. Il lettore vorrebbe tanto che Bonfiglio Liborio trovasse la sua Jenny, invece leggiamo solo un percorso di solitudine e incomprensione. Gli unici momenti di serenità sono legati a due personaggi: il maestro Romeo Cianfarra, che sa guidarlo con affetto nel percorso scolastico regalandogli l’unico libro che sarà sempre in suo possesso, il libro Cuore, e il dottor Alvise Mattolini che sa bene come la pazzia di Liborio sia solo un disadattamento sociale che non avrebbe meritato il manicomio. Da questi due luoghi chiusi e protettivi, ognuno a suo modo, la scuola ed il manicomio, Liborio dovrà uscire per affrontare il mondo da cui viene deriso perché diverso dagli altri. La narrazione avviene attraverso un linguaggio imprevedibile, un misto di dialetto, italiano e parole inventate in una sorta di discorso libero dai vincoli sintattici che ricorda le invenzioni linguistiche di Verga o di Svevo.
Mi vengono in mente rammemorazioni antiche, ma devo chiudere gli occhi per rivedere bene le scene, per riascoltare le voci, per ricordarmi ogni tanto un silenzio che non era il silenzio normale, un silenzio freddoso che poi non ho più sentito mai, manco di notte che stavo solo come un cane ammalato di rogna.
L’elemento che fa la differenza rispetto alla passata letteratura è che la voce narrante ha una diversità, l’essere cocciapazza, l’essere un buono assoluto. L’ingenuità del personaggio che si rivela in questo suo parlare aggrovigliato, rende a volte faticosa la lettura. Non ci sono dialoghi perché la storia è narrata sempre e solo come un lungo ricordo. Proprio per questo le vicissitudini si ingarbugliano, si ripetono, si dilungano in periodi a volte prolissi.
L’autore in un’intervista ha dichiarato. In effetti il libro si pone come un invito all’accoglienza, all’accettazione della diversità, al superamento dell’io egoistico verso un noi solidale: insomma un libro che parla di porti aperti. La figura di Liborio potrebbe rientrare, di certo, nel perimetro della cosiddetta storiografia della marginalità, un settore di studio tra i più suggestivi e originali del Novecento. Egli osserva, parla, o anche resta in silenzio, stando ai margini, nella fila degli ultimi, eppure lotta, con unghie e denti, per dar voce a quelli che non hanno voce.
Chiudendo il libro si prova tanta tristezza per le ingiustizie e le angherie subite da Bonfiglio Liborio.