Il 20 e 21 settembre siamo chiamati ad esprimerci sul referendum per il taglio del numero dei parlamentari. Come noto, da 630 a 400 alla Camera e da 315 a 200 al Senato. Si tratta di modificare tre articoli della Costituzione: 56, 57 e 59.
Le ragioni del SI sono sostanzialmente riconducibili a due: riduzione dei costi della politica e maggiore efficienza del Parlamento. Le ragioni del NO risiedono nella convinzione che, in mancanza di una riforma costituzionale organica, gli obiettivi non saranno raggiunti ed anzi ne risulterebbero indebolite le Istituzioni repubblicane. Proviamo ad entrare nel merito delle questioni.
La riduzione dei costi ovviamente ci sarà. Si parla (Osservatorio dei conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli) di scarsi 300milioni di euro a legislatura, ossia meno di 60milioni all’anno. Davvero pochini in rapporto al costo complessivo del Parlamento, ma comunque buoni per farci qualcosa. Che so, un ponte di Genova ogni 5 anni. Viene però da chiedersi perché sia necessaria addirittura una riforma costituzionale e non si possa fare una semplice legge di riduzione degli “stipendi”, che non comporterebbe alcuna controindicazione. Evidentemente gli “Onorevoli” (non si può fare qualcosa per abolire questo vecchio appellativo che odora di muffa?) preferiscono rischiare di non essere eletti piuttosto che ridursi il compenso.
La maggiore efficienza, altrettanto ovviamente, non ci sarà. L’assunto in base al quale meno si è e meglio si fa è solo uno slogan. Con questo criterio il Governo dovrebbe essere affidato ad una sola persona, le società dovrebbero sempre avere un amministratore unico con buona pace dei consigli di amministrazione e in famiglia si dovrebbe tornare alla patria potestà abolendo quella congiunta dei genitori. Come la vedete? Vi ricorda qualcosa? In realtà, minore è il numero degli eletti, maggiore è il potere interdittivo (o ricattatorio, se preferite) di ciascuno di loro.
E veniamo ai problemi che si teme possano innescarsi. In primis, la rappresentatività. La riduzione del numero dei parlamentari comporta automaticamente la creazione di collegi elettorali più grandi. Saranno cioè necessari più voti per essere eletti. Questo porta a due conseguenze: da un lato si indebolirà inevitabilmente il rapporto diretto tra rappresentanti e rappresentati, dall’altro saranno necessari più soldi per le campagne elettorali (e chi li darà ai candidati?). Per carità non si tratta di uno stravolgimento, però avrà conseguenze significative. Soprattutto nelle regioni più piccole.
Poi c’è la questione dell’elezione del Presidente della Repubblica, cui partecipano i parlamentari e i delegati regionali. Se il numero dei primi diminuisce, il peso dei secondi aumenta e il rapporto fissato dalla Costituzione salta (non è necessario modificarne anche l’articolo 83?). Infine, il tema delle regole di funzionamento del Parlamento. Solo per dirne una, numero e funzioni delle commissioni parlamentari sono tarati sull’attuale numero di deputati e senatori. Modificarlo senza riscrivere le regole può aggiungere difficoltà invece che semplificare il quadro.
Sembra quindi condivisibile la critica di fondo per cui fare un solo pezzetto di riforma è più dannoso che utile. Ma la relativa risposta non è del tutto campata in aria. Se non cominciamo non faremo mai niente. Partire con una riforma strutturale è impossibile, la storia recente ce lo ha dimostrato. In questo modo, invece, si può avviare un percorso di riforma più ampia. Giusto, se non fosse che partire male non è obbligatorio e non aiuta il percorso. E, in ogni caso, di quale percorso si tratta? Qual è la nuova Costituzione che si ipotizza? Partire oltretutto alla cieca è pericoloso. C’è il rischio che di leggina in leggina si arrivi a fare qualcosa di veramente sbagliato.
D’altronde, il percorso politico e parlamentare di approvazione della riforma fa nascere più di un sospetto. Non su chissà quali fini reconditi, ma sulla buona fede dei partiti. Il M5Stelle la pose come obiettivo imprescindibile e la Lega, socia di Governo, l’approvò. Il PD, all’opposizione, votò invece contro. Poi, cambiate le alleanze, coerente con se stesso ha detto si. Oggi, con una maggioranza degli elettori favorevoli quasi all’80%, quale forza politica vuoi che indichi di votare no. Tutti a lucrare consenso.
Alla fine, il si vincerà in un quadro di significativo astensionismo e nessun partito ne uscirà sconfitto. I 5Stelle, che presumibilmente non brilleranno alle regionali, potranno intestarsi almeno questo risultato. Il “popolo” penserà di aver affibbiato una bella sberla all’odiata “casta”, che invece proseguirà il suo lavoro sostanzialmente indisturbata.
Tutto è bene quel che finisce bene.