Che non si sarebbe raggiunto il quorum ai referendum sulla giustizia lo si era capito da tempo, ma che non si si sia raggiunto neanche il 21% degli aventi diritto alle urne è davvero plateale. Agli Italiani di scervellarsi a decrittare i cinque cervellotici quesiti non ha potuto fregar de meno.
Ora si sente dire che la lobby dei malvagi piemme ha sabotato la consultazione e lo si sente dire anche da chi – è il caso, tra gli altri, di Silvio Berlusconi – si è ricordato del referendum solo tre giorni fa!
Eppure, un problema sulla giustizia in Italia c’è. Il correntismo esasperato, la politicizzazione, la commistione peccaminosa tra carriere giudiziarie e politiche, la lentezza del suo corso, l’abnorme burocratizzazione, per citare solo alcuni nodi, hanno prodotto agli occhi dei cittadini anno dopo anno un crescente discredito della funzione giudiziaria, che rasenta ormai la sua delegittimazione. A fronte di ciò il Legislatore, a cui spetta la disciplina della materia, e non può che spettare esclusivamente ad esso, ha accompagnato tale deriva con indolenza, meglio con inerzia. Solo sotto la minaccia di un pronunciamento popolare si è dato una smossa, finalmente varando la pur modesta riforma Cartabia di qualche settimana fa. Ma tant’è, meglio poco che nulla, accontentiamoci.
Perciò, proprio in considerazione dell’inerzia del Parlamento, per se stessi i referendum, pur vertendo su una disciplina non consona per una pronuncia ‘popolare’, avrebbero potuto essere utili se non altro per sviluppare nel Paese una discussione collettiva, una qualche riflessione sullo stato della giustizia. Non c’è stato neanche questo.
Le ragioni di questo fallimento vanno ricercate, oltre che sulla natura dei quesiti, nella concomitanza temporale con una delle congiunture più tormentate della storia della nostra Repubblica, tra pandemia, guerra russo-ucraina, inflazione e minaccia di crisi alimentare planetaria, con inevitabile conseguente recrudescenza del fenomeno migratorio. Nella testa della gente in questi mesi c’è stato – e tuttora c’è – ben altro che la modalità di composizione del CSM, ovvero la separazione più o meno rigida delle funzioni requirente e giudicante, o tutto il resto di cui ai quesiti referendari.
Aggiungiamoci il disincanto verso la politica, tutta la politica, compresa quella dei proponenti i referendum, com’è attestato dalla scarsa affluenza alle urne per il voto amministrativo nelle città dove si è votato per i sindaci. Se neanche la scelta per proprio sindaco coinvolge ormai più del 50-55% dei cittadini, come si voleva una partecipazione maggioritaria ai referendum?
Una domanda dovrebbero farsela al riguardo gli iper-partecipazionisti del nostro Paese, quelli per i quali i cittadini andrebbero coinvolti su ogni cavillo amministrativo o politico tramite strumenti di partecipazione democratica, mentre la perversa politica delle élite li tiene fuori dalle scelte. Ma, cari amici partecipazionisti, ve lo fate ogni tanto un tour conoscitivo per le sezioni ed i circoli dei partiti, di tutti i partiti? Quante ne trovate aperte? E in quelle aperte quanti iscritti partecipano alle discussioni e prendono decisioni vincolanti per i loro rappresentanti nelle istituzioni? Siete proprio sicuri che la gente abbia tanta voglia di partecipare?
L’ultimo tentativo romantico di organizzare una qualche forma di partecipazione diretta dei cittadini alle scelte della politica è stato fatto con il primo M5S di Casaleggio e Grillo. La sua democrazia digitale fondata sull’uno vale uno, velleitaria e sgangherata quanto si vuole – e sì, il parere di un clochard, con tutto il rispetto per la persona, non può valere quanto quello di un titolare di tre lauree, magari con decenni di militanza e di studi sulle spalle – aveva pur comportato un’illusoria ripresa dell’interesse popolare verso la politica. Le elezioni del ‘13 e del ‘18 avevano infatti registrato un freno alla deriva astensionista. È poi finita come si è visto: tre quattro anni ed anche il M5S si è omologato al resto della truppa, in peggio.
Un’ultima domanda devono infine porsela quanti, tronfi della loro ‘coerenza’ ideologico-costituzionale, nel 2016 si dannarono l’anima per far bocciare la riforma costituzionale della Boschi. Lì era contenuta anche una riforma dell’istituto referendario. Riforma seria, equilibrata, sensata. La rileggano quanti, tra loro, oggi si lamentano della scarsa partecipazione ai referendum e vanno in cerca di presunti piemme sabotatori e ci riflettano, la Costituzione ed i suoi istituti non si difendono imbalsamandoli.