“Caro don Giuseppe, non sono credente e non ho speranza alcuna che questa lettera possa in qualche modo arrivarle (e poi a che le servirebbe?)”.
Così inizia la lettera che Pietro Ingrao scrive a don Giuseppe Dossetti il 16 dicembre 1996. Il destinatario non avrebbe potuto riceverla in alcun modo. Semplicemente perché il giorno prima era morto.
In quella inaudita lettera Ingrao, il comunista intransigente, non credente – ma sarà stato davvero così? – confessava al monaco defunto i suoi dubbi e il suo sentirsi chiamato ad un ritiro dal ‘mondo del fare’. Il suo rammarico per la loro frequentazione tardiva, solo episodica. Quante cose non si erano detti. Quanti dialoghi si erano negati. Ed ora non erano più recuperabili. Don Giuseppe era morto, “un’irrevocabilità, un’interruzione fatale”.
“Noi due c’eravamo visti poche volte, l’ultima in quella casa amica […]. – gli scriveva Ingrao – In quel colloquio azzardai – lo ricordo – qualche domanda più ardita […] c’era un’enorme calma e silenzio, dove apparivano impossibili le dolci, rassegnate bugie quotidiane”.
Quali domande ardite gli aveva rivolto, o avrebbe voluto rivolgergli?
Dossetti era persuaso che il pensiero politico fosse insidiato da grandi pericoli. Non il pensiero politico di questo o di quest’altro. Il pensiero politico tout court, viziato dalla propensione all’azione e dalla ricerca dell’utile immediato:
“Io mi ricordo un testo in cui Ella diceva: ‘…la mia vita è stata già consacrata prima del sacerdozio, orientata ad una forma orante, con un dominio dell’orazione sull’azione, …orientata a diffondere tra i laici cristiani una formazione che stesse a monte del pensiero socio-politico e che lo sanasse continuamente dai pericoli…”
Ecco, la fondazione del pensiero politico su valori ontologici, non piegati all’utile contingente, alla ricerca del consenso per il consenso. Era questo il punto della riflessione del monaco che Ingrao avrebbe voluto capire meglio. Questa la domanda ardita, che forse gli aveva rivolto nella ‘casa amica’:
“… <<contemplare>> e <<fare>> in un tale tempo di transito che Lei ha chiamato <<la fine della Cristianità>>, ecco qual è il punto che per me è stato il Suo fascino e un enigma”.
Quando scrisse quella lettera – la pubblicò il Manifesto del 17 dicembre ’96 – Pietro Ingrao aveva ottantun anni (morirà nel 2015, a cento anni). Sentiva il bisogno di una vita meno frenetica. Non per godere di un pur meritato riposo. Per il desiderio della contemplazione piuttosto. Di una contemplazione laica, non religiosa, eppure egualmente possibile solo nel silenzio e nella calma. Nei tempi rallentati.
Quattro anni dopo, il 19 novembre del 2000, il leader comunista partecipò agli Incontri all’Eremo di Adriana Zarri. Dal suo intervento:
“Per tutta la vita ho posto grande attenzione al modo di produrre e al conflitto che ha luogo nell’atto produttivo. Durante questo processo tumultuoso sono sorte però in me delle domande e mi sono avvicinato a culture tese a scavalcare l’orizzonte del produrre e del fare, campo centrale del pensiero di Marx e della vicenda socialista e comunista. Con il passare del tempo sono venuto interrogandomi su altri momenti della vita umana, che andavano oltre l’ambito del conflitto di classe […] ho quindi cominciato ad ampliare il discorso al di là del campo del fare e del produrre, allargando il mio sguardo ad altri mondi e ad altre forme di relazione umana. Forme diverse da quella che ho chiamato “l’alta febbre del fare” […] Così è maturata in me una rivalutazione della lentezza, quasi un elogio, oserei dire. Ho smesso di considerare la lentezza sempre in maniera negativa e ho cominciato a riflettere su come essa possa iscriversi in una visione più complessa e più sfumata dell’esperienza umana. Lentezza intesa come gironzolare, sostare, procedere esitando, considerati non più come disvalori, come segni di fannullaggine, come perdite di tempo – espressioni che oggi invece usiamo tanto spesso. Lentezza che diventa sempre più occasione di scoprire diverse forme di temporalità, conoscenze che altrimenti, nell’agitazione, non possono essere visibili. […] un indugio che schiude sentieri, vie, luoghi altrimenti inaccessibili”.
Comprensibile come nel piccolo paese natio, Lenola in provincia di Latina, dove Ingrao tornava spesso nei suoi ultimi anni, si fosse diffusa la voce di una sua ‘conversione’. Che non ci fu, pur se in tanti notavano il vecchio leader recarsi abitualmente nella chiesa da lui frequentata da bambino. Vi si tratteneva, nella calma, nel silenzio. A contemplare.
Ma torniamo a quel 17 dicembre del ‘96. Il giorno dopo si sarebbero svolte con tutti gli onori le esequie di don Giuseppe nella Basilica di San Petronio a Bologna. Ingrao non ci andò. Glielo spiegò nella lettera del 17 dicembre:
“Non sarò domani al rito di Bologna. E non solo perché non sono credente. Questa società stride aspramente con quel volto del monaco che ho amato”.
La società stridente era quella della politica, delle autorità, della spettacolarizzazione del potere e della ossessiva ricerca della visibilità. Vanitas vanitatum.