Nelle scorse settimane, alla data del 25 novembre, giorno in cui sono morti – a distanza di 15 anni ed entrambi sulla soglia dei 60 anni – sia Diego Maradona che George Best – qualche giornale ne ha parlato con il solito sciocco cliché dei due calciatori maledetti. Qualcuno si è anche interrogato se fosse giusto per la sua nazionale portare il fuoriclasse irlandese, già avanti negli anni e fuori condizione, ai mondiali dell’82. Non saprei dire se potesse essere in condizione per andare al mondiale. Dico però che Best lo avrei portato comunque. Parliamo dell’unico calciatore che, per tecnica e carisma, forse davvero si può accostare a Maradona. Entrambi sono stati interpreti geniali delle due diverse epoche che li hanno visti giocare. A loro modo due rivoluzionari.
Maradona interpretò un ciclo buio del mondo, gli anni ‘80, il rifluire delle tante speranze del ventennio precedente, il prevalere di valori individualistici e spesso egoistici. Lì Diego seppe caricarsi la rappresentanza di un intero continente di contro alle asimmetrie sociali del pianeta. Non solo la sua America Latina ma tutti i Sud, a partire da quel ventre di Napoli che lo vide sregolato e disperato signore. Il suo peso fuori dal campo fu, ed è ancora, enorme, peso politico in senso proprio. Dal riscatto per le Falkland Malvinas con la mano di Dios, al raduno del 2005 allo stadio argentino di Mar della Plata fianco a fianco di Chavez e Toni Negri, fino all’amicizia e agli incontri con Castro. Nessun altro calciatore come lui seppe, con tutte le sue contraddizioni, parlare a così tante masse e popoli con un messaggio insieme di autenticità e di liberazione.
George Best, in modi e tempi diversi, fece lo stesso. Lui, europeo, rappresentò a pieno la rivolta culturale degli anni ‘60. Meno sociale di Diego, suo malgrado incarnò con la sua persona e il suo calcio le rotture e gli slanci di quegli anni. Lo sappiamo bene noi che di quella generazione siamo stati, nel nostro piccolo, parte. Sembrava che ogni cosa fosse possibile, ogni limite raggiungibile, una sorta di sicurezza saccente di stare nel vento giusto della storia. Fu una maniera diversa di vivere la stessa disperazione di Diego. Lì più solitudine, lotta, anche contro i vertici di un calcio che si avviava a diventare l’arido affare che è oggi. Negli anni ‘60 una disperazione più scapigliata, collettiva, leggera, di tutta una generazione europea e nordamericana. Il delirio di voler rovesciare ogni cosa, a partire dai rapporti umani e dal costume.
Di questa rivoluzione giovanile Best fu una icona assoluta. Bello, scanzonato, circondato dalle ragazze e appassionato di automobili, dribblatore formidabile in campo. E proprio nel ‘68 vince coppa Campioni e pallone d’oro. Poi il declino precoce e la morte prematura. In fondo un po’ come quella rivoluzione che, con alcune rock star, aveva incarnato.
Il calcio sappiamo non è solo tecnica e gol. Pelé e altri ne hanno avuta tanta e tanti sono stati i loro risultati. Ma sono le storie che alcuni fuoriclasse incarnano a fare la differenza. Perfino Messi, campione inimitabile, ha dovuto attendere questo mondiale per essere consacrato. Non solo perché lo ha vinto ma perché lo ha fatto diventando finalmente una guida capace di arrivare al suo popolo.
Maradona e Best sono forse i più grandi (ma le classifiche qui non interessano) perché interpretarono l’immaginario di milioni di esseri umani. E dopo la loro morte, miti assoluti, ancora continuano a farlo.