In chiusura dell’ultimo articolo dedicato a Pompei e al Canale Sarno scrivevo questa frase: cosa ci resta da dire, se non che sarebbe il caso di rimettere indietro di duemilacinquecento anni la Clessidra del tempo per indagare seriamente le origini preromane di Pompei?
A tale frase si ricollega idealmente l’articolo di oggi che conclude una trilogia dedicata alle grosse cantonate prese dall’Archeologica togata e dalla Storiografia pompeianistica su alcuni aspetti della Storia di Pompei antica e della sua scoperta con gli scavi iniziati alla metà del Settecento.
Un’eco dell’articolo ha riguardato la curiosità intellettuale di un lettore nolano che chiedeva notizie sull’autore della cartografia che io avevo riportato sul giornale, essendo evidentemente noto anche a lui che il nolano Ambrogio Leone, medico, filosofo e umanista di grandissimo prestigio – una sorta di riconosciuto “maitre à penser” tra Quattro e Cinquecento – aveva effettivamente collocato Stabia sulla destra idraulica del Fiume Sarno. In pratica Ambrogio aveva messo Stabia al posto ove invece era Pompei.
L’autore della cartografia non era altro che un seguace della dottrina di Leone, attivo quasi un secolo dopo, nel Seicento. Eppure, il “Leone nolano” aveva a lungo vissuto a Nola da dove era in contatto con gli umanisti napoletani Pontano e Sannazaro, mentre il suo prestigio culturale lo portò a essere lodato dall’altro famoso umanista Erasmo da Rotterdam, che ne subì il fascino intellettuale. Insomma, un luminare europeo. Leone morì a quasi settant’anni, nel 1525.
Ma nel 1536, soltanto un decennio dopo la morte di Leone, il Tabulario della corte napoletana Pietro Lettieri, impegnato nella ricerca degli acquedotti romani da riattare per meglio soddisfare il fabbisogno idrico della Città di Napoli, divenuta nel frattempo una delle capitali del mondo, si trovò a smentire ufficialmente la teoria di Ambrogio Leone sulla effettiva ubicazione di Pompei, quando affermò nei propri diari, destinati alla Corte Vicereale napoletana, che l’antica città di Pompei “…era in quello alto che stà in fronte la Torre della Nonciata”. E, badi bene il lettore, era il Topografo di Corte a scrivere, mica un illustre sconosciuto! Ma la Cultura “antiquaria” dominante degli archeologi dell’epoca continuò a sostenere le posizioni di Ambrogio Leone, anche se ci pensò il Vesuvio con la immane eruzione del 1631 – seconda solo a quella del 79 d.C. per furia distruttrice – a seppellire, stavolta definitivamente e fisicamente, le tracce della memoria di Pompei. E fu così che, quando nel 1748 per volere del Re Don Carlos di Borbone si intraprese lo scavo per rimettere alla luce le rovine sepolte ubicate tra Torre Annunziata e Boscoreale, sulla collinetta della Civita, si parlò del ritrovamento delle rovine di Stabia, per lunghi anni, anzi per qualche decennio. E poi, quando affiorò per le prime volte da incisioni o epigrafi il nome Pompei, si pensò a una villa romana appartenuta a Pompeo Magno.
Ne è prova la lettera che, Intorno al 1770 – quindi ad oltre un ventennio dall’inizio ufficiale degli scavi – Luigi Vanvitelli scrive al fratello Urbano comunicandogli di doversi recare alla “Pompeiana” per la sistemazione della strada regia accanto agli scavi in corso. Ebbene Vanvitelli, l’Architetto del Re di Napoli pensa ancora che la Villa Pompeiana, sia la Villa di Gneo Pompeo. Soltanto qualche anno dopo la Archeologia togata dell’epoca vira – finalmente, diciamocelo con franchezza – sulla ipotesi, poi confermata, di Pompei, la colonia conquistata dai Romani nell’anno 89 a.C.
Mi fermo qui, per non infierire contro la disinvoltura con cui la Archeologia Togata effettua le proprie virate, anche quelle a gomito chiuso, affidate a una Storiografia Pompeianistica spesso succube e acritica.
Mi avvio dunque alla conclusione segnalando il ritardo epocale – ormai abbiamo superato il quarto di millennio – con cui la Archeologia Togata e la Storiografia Pompeianistica hanno finora ignorato la sempre più pressante richiesta di Verità che emerge dalle poche voci eretiche e libere. La verità “eretica” più ciecamente tenuta nascosta riguarda infatti il Canale Sarno, la sua effettiva datazione di canale arcaico utilizzato da Domenico Fontana per farvi transitare le acque del Canale Sarno in costruzione per il Conte Tuttavilla di Sarno. Nel precedente articolo abbiamo ricordato la grande voce eretica settecentesca di Raffaele Garrucci che affermò l’ipotesi secondo cui per completare il Canale Sarno si fosse “…rimesso in uso un’antico acquidotto e non fabbricato uno nuovo”.
Poi abbiamo ricordato la voce eretica di Domenico Murano, ingegnere idraulico e storico, collaboratore del Direttore degli scavi Ruggiero a metà Ottocento.
Egli scrisse che Domenico Fontana aveva realizzato il canale Sarno utilizzando un preesistente “…acquedotto Osco e quel tratto che attraversa la antica Città di Pompei” da oriente a Occidente. E, non potendo parlare oltre – per motivi che intuiamo ma non conosciamo bene – il Murano corredò la sua maggiore opera sul Canale Sarno con una immagine che rappresenta l’urlo della sua verità eretica sulla Pompei preromana. Dall’immagine si evince che il Canale attribuito a Domenico Fontana in epoca romana già esisteva (!) ed era addirittura in parte al di sopra del calpestio urbano (!!) in alcuni tratti del suo attraversamento dell’antica Pompei. Come nel tratto a monte dell’Anfiteatro pompeiano e come nella Casa di Giulia Felice o in quella del Vasaio.
Una verità urlata, ma soffocata dal silenzio assordante dell’Archeologia togata e della Storiografia Pompeianistica asservita.