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Pompei nel dopoguerra, la tragedia della bomba a mano

by Federico L.I. FEDERICO
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Correva l’anno 1954 e la Pompei nuova – che aveva da poco superato il venticinquesimo anniversario della propria nascita come Comune Autonomo nel 1928 – cominciava a staccarsi definitivamente dagli orrori della Seconda Guerra mondiale.

La cittadinanza – composita e derivante da quattro diversi Comuni – aveva superato il conflitto tutto sommato abbastanza bene, perché il trapasso dal Fascismo alla Democrazia fu vissuto senza traumi o eccessi, ma anche grazie al Santuario che aveva svolto la funzione di tana materna con i suoi sotterranei adattati a rifugi antiaerei. Colà, infatti, i cittadini Pompeiani si rifugiavano per scampare ai bombardamenti alleati.

E il Santuario non fu mai colpito. Qualcuno diceva: anche grazie all’aiuto della Madonna…

Colpito invece e semidistrutto dalle bombe nel centro urbano moderno fu l’antico Hotel del Sole e lungo la via Plinio fu colpito l’almeno altrettanto antico Hotel Suisse.

Erano due importanti strutture turistico-alberghiere note in Italia e all’Estero.

La Pompei antica – al confronto di quella Nuova – aveva pagato un più duro tributo di danni e distruzioni, avendo essa subito dalle incursioni aeree circa centosettanta bombe, che uno studioso spagnolo naturalizzato italiano, gran conoscitore degli Scavi di Pompei, Laurentino Garcia y Garcia, nel 2006, ha raccontato e documentato nel Volume dal titolo “Danni di Guerra a Pompei. Una dolorosa vicenda quasi dimenticata”.

Un altro libro più di recente è stato pubblicato nel 2017 dall’architetto Renata Picone, alto funzionario del MIC. Il suo titolo è “Pompei alla guerra. Danni bellici e restauri nel sito archeologico”. I due volumi esaustivamente rendono giustizia postuma alle distruzioni sofferte dalla Antica Pompei a causa della guerra.

Dei danni sofferti dalla Pompei nuova e contemporanea si è occupato, sia pure in misura non esaustiva, il libro Pubblicato nel 2010 da chi scrive questo articolo.

Il libro, infatti, è dedicato alla figura straordinaria e complessa di un Vescovo di Pompei, impegnato contro i totalitarismi del Novecento, premiato con medaglia d’argento come Partigiano. Il libro reca il titolo: Roberto Ronca prelato e partigiano combattente. A Pompei nel dopoguerra” e tornerà presto in libreria, se completato con la tragica storia luttuosa che racconto brevemente in questo articolo, che mi tocca da vicino.

Ma entriamo in media res: due ragazzini, poco più che bambini, morirono dilaniati nel 1954.

Essi però non sono ricordati e onorati come Vittime civili di guerra in nessun sito della Città nuova. Eppure il tragico evento successe in pieno dopoguerra, a circa dieci anni dalla fine del conflitto mondiale. Due incolpevoli e ingenui ragazzini, compagni di classe di chi scrive ricordandone i volti e i funerali, rimasero vittime della perfidia della guerra, a causa dello scoppio di un “ordigno inesploso”, come – con dicitura burocratica e asettica – liquidarono il tragico accadimento le Autorità preposte a tali eventi luttuosi, allora frequenti ancora in tutto lo Stivale.

Basti pensare che, negli scavi di Pompei l’ultima bomba inesplosa è stata ritrovata nel 2017.

E, ancora nel 2022, soltanto due anni fa, l’esplosione di un residuato bellico ha provocato la morte di un uomo e il ferimento di un altro in provincia di Venezia.

Insomma, sono trascorsi quasi 80 anni dalla conclusione del Secondo Conflitto Mondiale, ma i residuati bellici continuano a costituire un rischio latente in tutto il territorio nazionale.

In Italia ne sono stati rinvenuti circa 60.000 ogni anno, secondo l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra. La stessa Associazione inoltre informa che sono ancora oltre 250 mila gli ordigni bellici inesplosi risalenti alla Seconda guerra mondiale che contaminano il suolo italiano e che sono oltre 23.000 le vittime civili che hanno perso la vita o sono rimaste ferite dalla fine della Seconda Guerra mondiale a oggi. Sono dati di cronaca nera.

Ma torniamo a Pompei nel 1954. Anzi nella pompeiana Via Astolelle, strada periferica che fu teatro della tragedia. La breve asta stradale della Via Astolelle era parte integrante della direttrice da Castellammare a Nola, da Sud a Nord, dopo la eruzione Pliniana che colmò la laguna esistente tra Pompeii e Stabiae.

Quel percorso portava dal Mare all’Entroterra vesuviano-nolano, dopo avere incrociato la Via Regia delle Calabrie, nel nodo stradale dove poi è sorto il Santuario Mariano. La Via Astolelle, che forse prende il nome dal latino “astula”, è lunga circa un chilometro e costeggia, ora come allora, il Polverificio Borbonico, dopo avere sovrapassato il fiume Sarno su un ponte ricostruito nel dopoguerra seguito a un centinaio di metri da un altro ponticello che sovrapassava, ora come allora, il Canale Bottaro, opera di ingegneria seicentesca dei Piccolomini D’Aragona.

Nei primi anni Cinquanta la sponda del fiume Sarno, sul versante pompeiano della destra idraulica del Sarno era infestata di erbe e arbusti fluviali, calle bianche e qualche non rara canapa indiana, ma la cannabis era allora del tutto ignorata. La sommità delle sponde era coronata da filari di piante di Mais, in dialetto ’o granone, che costituivano una barriera bassa, sovrastata da alti e annosi pioppi svettanti, ‘e chiuppariélli, ma anche da solitari ontani e platani.

In quella giungla verde, di sera poco raccomandabile, una lucciola (si fa per dire…) vendeva le proprie grazie a giovani e anziani, a volte in fila di attesa, mentre i ragazzini più audaci – che venivano allontanati a male parole – occhieggiavano e sbirciavano tra le foglie in cerca di immagini osé, per i tempi.

Si dice che si chiamasse Teresa, “nave scuola” di intere generazioni maschili tra Pompei e Scafati – la quale all’epoca intratteneva i clienti su giacigli improvvisati in capanne di “stucchi”, il fusto tenero del Mais.

Sono immagini che vengono alla memoria di chi scrive, da un altro Tempo.

Da un’altra Pompei. Da un Passato che fu Presente. Ma non è più.

In quegli stessi luoghi, abitati da famiglie contadine operose, punteggiati da rare presenze di bottegai e artigiani, in pieno giorno, verso le ore tredici dell’undici di Ottobre del 1954, un gruppetto di quattro ragazzini assolutamente innocenti – usciti una oretta prima dalla Scuola Elementare delle Scuole Elementari Pontificie di Pompei, in via Sacra, a quattro passi dal Santuario e a due passi dalla Stazione FFSS, faceva di buon passo ritorno a casa, con la gioia di vivere incontenibile della età. Erano in quattro. Tutti tra i nove e i dodici anni.

Ne ricordo doverosamente i nomi: Gabriele ROSA, Ciro SPINELLI, Giovanni CELOTTO e Ciro Coppola.

I quattro amichetti, di cui due Ciro Spinelli e Gabriele Rosa frequentavano insieme a me che scrivo la Classe IV Elementare, dovevano superare il Fiume Sarno e portarsi sulla sua riva sinistra, dove c’era una strada diritta come un fuso detta “Ripuaria”, tracciata dalla rettifica ottocentesca del Sarno, voluta da Ferdinando II di Borbone.

Cioè dopo il raddrizzamento del suo corso fluviale che, per arrivare al mare torrese-stabiese di Rovigliano, faceva un percorso molto sinuoso, prima di immergersi nello “Stagnone”. Esso è un vasto stagno retrodunale alla destra idraulica della foce a mare del Sarno. Oggi arido, ma ancora punteggiato di canne e cannucce e altri reliquati botanici che ne denunciano l’origine di zona umida.

Presto lo Stagnone potrebbe essere irrorato nuovamente da un Sarno più pulito e riprendere il proprio ruolo di nursérie fluviomarina pescosa e fresca, come l’antica Dulcis Pompeia Palus.

Intanto, i quattro ragazzini, tra corse e rincorse gioiose, erano arrivati alla periferia sud della Via Astolelle, già vicino alla grande mole del muro di cinta dell’ex Polverificio Borbonico, allora ancora Istituto Sperimentale per i Tabacchi.

In pratica una grossa piantagione di vari tipi di piante di Tabacco e un edificio monumentale rosso borbonico in fondo a un viale perimetrato da due filari di platani imponenti. Tutt’intorno un alto muro grigio. In quel muro alto e non scalabile era incistata una garitta elegante, con la sua cupoletta svettante in muratura, dove stazionava, come piantone e sentinella, un finanziere armato di mitra, messo di guardia al vicino cancello carrabile. Davanti a esso transitavano pochi passanti e le carrette dalle grandi ruote al traino di vecchi cavalli o anche, più raramente, di buoi.

Un quadro agreste, insomma, in cui l’acqua corrente del fiume e del canale era una presenza immanente, ristoratrice e nutrice degli ortaggi “parulani” prodotti dalla ferace campagna circostante, prossima alla località Messigno, frazione della Pompei nuova, ma già avamposto amalfitano sul Sarno, ai tempi gloriosa Repubblica marinara.

Si era fatta quasi l’una e i quattro ragazzi erano sollecitati anche dalla fame, ma sempre pronti a darsi anima e corpo alle novità. Ecco che, arrivati al ponticello di attraversamento del canale Bottaro, qualcuno di essi individuò nell’acqua un oggetto, una scatola contenente oggetti metallici. Ai quattro ragazzini apparve subito come un tesoro da recuperare.

La ingenuità della minore età aveva loro fatto dimenticare i tanti avvisi e manifesti da cui erano tappezzati i corridoi della scuola. Manifesti che avvisavano del pericolo degli ordigni inesplosi e le copertine della Domenica del Corriere che riportavano – attraverso i segni e le pennellate naturalistiche di Walter Molino – i casi di esplosione improvvisa e mortale di tali “ordigni inesplosi”.

 

 

E da qui, nel seguito dell’articolo, per fuggire alla facile emozione, cedo la parola ai contributi che ho recuperati grazie alla disponibilità dei parenti di quei ragazzi, miei amichetti di Classe IV elementare. Dopo avere inutilmente cercato notizie presso l’Archivio del Comune di Pompei, e presso la Biblioteca della Prelatura Pontificia, le ho rinvenute a Napoli presso l’Emeroteca Tucci, consultando le pagine de Il Mattino del 13 Ottobre del 1954.

Il titolo, esplicito, era: DUE RAGAZZI MORIBONDI E UN CARRETTIERE FERITO. Il sottotitolo era: Gli ordigni erano stati rinvenuti in un canale d’irrigazione presso Pompei.

Ed ecco, per stralci integrali, alcune parti dell’articolo di cronaca nera: (…) In un canale di irrigazione attiguo alla strada rinvenivano sette bombe tipo OTO. Ignari del pericolo i ragazzi si mettevano a maneggiare i pericolosi ordigni mente lo Spinelli, tolto il dispositivo di sicurezza batteva una delle bombe contro il muretto di cinta del Canale nello ingenuo tentativo di aprirla. All’urto la bomba scoppiava con una forte detonazione ferendo gravemente sia lo Spinelli che il Rosa, mentre gli altri due bambini fuggivano verso le proprie abitazioni. Per caso si trovava sul posto il carrettiere Luigi Coppola di Domenico che, benché ferito anch’egli leggermente dalle schegge, unitamente al cavallo, trasportava i due bambini in una clinica locale ove versano in pericolo di vita. (ndr: La Clinica è ancora esistente. E’ la Casa di Cura Maria Rosaria). L’Arma dei Carabinieri indaga per assodare chi abbia potuto depositare i sette ordigni, dato che il canale era stato ripulito un mese e mezzo fa dai detriti.

A noi resta ancora soltanto il compito di riportare le dichiarazioni scritte e orali raccolte da Celotto Giovanni uno dei due sopravvissuti. Era stato proprio lui a recuperare il “tesoro” sommerso nell’acqua del Bottaro, calandosi nel Canale, che portava in quel momento poca acqua. Il Celotto recuperò la scatola – forse di cartone – con tutti gli oggetti erano dentro e racconta così in suo scritto di qualche anno fa dal titolo “Tragedia della Bomba a mano:

(…) Facemmo a gara a chi toccava recuperarle… Appena poggiai i piedi dalla scatola fuoriuscirono degli oggetti curiosi per noi bambini. Avevano la forma di un barattolo da mezzo chilo e come i barattoli erano metallici ma sembravano molto più preziosi perché erano ricoperti di aggeggi vari, scritte e lettere strane. (…) Eravamo sulla sommità del ponte sul canale di Bottaro quando uno dei miei amici prese a calci uno di questi strani oggetti a mo’ di palla e dopo vari calci e passaggi tra lui e l’altro compagno, prese in mano l’oggetto misterioso e fu in quel momento che scoprimmo che dallo stesso usciva un ticchettìo simile a un orologio (…) I miei amici (…)poggiarono l’arnese a terra e con qualche pietra lo colpirono; ci fu un fragore talmente forte che tutto si fermò per alcuni secondi. Io rimasi immobile, mi cadde tutto dalle mani, libri e aggeggi strani. Appena mi ripresi l’istinto mi portò a correre verso casa, feci forse dieci passi, (…) e in quel momento vidi la terrificante scena… Uno dei due era stato scaraventato nel campo vicino e l’altro che era stato sbattuto nella strada veniva soccorso da un passante. Quest’uomo lo aveva appena alzato da terra e io vidi solo una figura di bambino straziato che formava una massa di sangue rosso dalla testa ai piedi…”

Si trattava di Ciro Spinelli e l’uomo forse era il carrettiere che trainò con il proprio cavallo il bambino ferito alla Clinica Maria Rosaria dove Ciro spirò, dopo tre o quattro giorni dal ricovero urgente.

Ma, ovviamente, non posso chiudere l’articolo senza parlare dell’altra vittima, Gabriele Rosa, morto la sera stessa dello scoppio perché colpito in parti più vitali. Riporto quindi le parole della sorella ultraottantenne di Gabriele, Rachele, la quale con scrittura ordinata di un tempo ha scritto un commovente proprio contributo di ricordi e sentimenti. La anziana Rachele, tra l’altro, racconta:

(…) Immaginate mio padre, quando vide il figlio e l’amico del figlio, pieni di sangue, gli altri ragazzi abbandonarono le “scatolette” e fuggirono. Mio padre straziato, prese suo figlio da terra, lo mise sulla “Vespa” e lo trasportò alla Clinica Maria Rosaria di Pompei. Per mio fratello non c’era più niente da fare, morì verso le dieci di sera, quell’altro bambino morì dopo quattro giorni di agonia. Due ragazzini, uno di dieci anni e uno di dodici anni, splendidi

Ragazzi, belli come il sole morire per un’orrenda guerra, che era finita da dieci anni e continuava a mietere delle vittime. Maledetta Guerra!! Quanto dolore ci ha arrecato!

Il bambino di cui ho detto si chiamava Rosa Gabriele e io sono Rosa Rachele, la sorella.

Tutto questo è successo nel 1954.