IL PAESE DELLE CATASTROFI
In passato, quindi, ci si è trovati impreparati ed impotenti nel fronteggiare gli eventi calamitosi che negli ultimi cento anni sono stati più di settemila in Italia. E così, all’uopo, scriveva ENZO BIAGI:
“C’è una geografia dell’Italia disegnata dalle disgrazie: straripa il Po e scopriamo il Polesine; un’altra alluvione mette in mostra i dolori della Calabria o di Salerno; sussulta la terra, impariamo i nomi sconosciuti: Gibellina o Folgaria. Non sono dei retori quelli che affermano che noi viviamo sugli slanci, sulla fantasia e, quando è possibile, sulla buona sorte: ci mostriamo smarriti e sprovveduti davanti al disordine della società e alle forze della natura”
IL RAPPORTO TRA L’UOMO E IL TERRITORIO NEGLI ULTIMI 50 ANNI
Di fronte al susseguirsi di eventi calamitosi ed ai grandi disastri, l’atteggiamento dell’uomo si è progressivamente modificato nel corso degli ultimi 50 anni, con la nascita di una cultura ambientale che viene fatta risalire agli anni ’60 e precisamente dopo la tragedia del Vajont (1963) e le grandi alluvioni di Venezia e Firenze (1966), anche se gli eventi del Polesine del 1951 già avevano allertato l’attenzione di tutto il Paese.
A partire dagli anni ’60, la comunità scientifica dedica sempre maggiore importanza alle ricerche sulla previsione e propagazione delle piene fluviali, sulla difesa del territorio e dei litorali, sulla laminazione e sui problemi ambientali in generale.
LA STORICA LEGGE 183/89
Solo però alla fine degli anni ’80, a seguito di eventi sempre più drammatici, la necessità della difesa del territorio si è posta con impeto, assumendo un valore costituzionale primario con la storica Legge 183/89, che veniva a rappresentare una sostanziale conquista per la sua cultura ambientale, individuando, a quasi vent’anni dai lavori conclusivi della Commissione De Marchi, nel bacino idrografico l’ambito fisico ottimale per la gestione integrata del territorio, sia ai fini del contenimento del rischio che per l’uso ottimale della risorsa idrica.
Ma ad una così fervida attività di riforma legislativa è purtroppo seguita una applicazione poco efficace se non addirittura elusiva, con ambigue attribuzioni istituzionali conseguenti al decentramento delle competenze. Ne consegue il perdurare delle condizioni di incertezza, l’assenza di una organica attività programmatoria e pianificatoria e, pertanto, il continuo ricorso alla “pratica dell’emergenza”.
L’INSERIMENTO DELLE OPERE NEL TERRITORIO
Un altro problema è l’inserimento delle opere nel territorio, dal momento che le dimensioni rilevanti (si pensi alle vasche per il fango o ad alcune briglie talmente imponenti da richiamare alla mente veri e propri sbarramenti fluviali) pongono seri problemi in questo senso. E, probabilmente, dopo l’emozione iniziale sono le stesse popolazioni, che queste opere devono difendere, a non vedere di buon occhio manufatti così importanti.
Terzaghi diceva che le opere in sotterraneo sono opere senza gloria, perché di esse si parla solo quando vanno male. Non senza amarezza, occorre ammettere che anche le opere di mitigazione del rischio idrogeologico sono senza gloria, con benefici a lungo termine e talvolta neppure percepiti. Occorre, quindi, una forte coscienza civica per assumere impegni politici in interventi che non portano beneficio immediato: di questa coscienza si è ormai perduto il seme, nel nostro Paese.
LA CONOSCENZA DELL’AMBIENTE FISICO PER UNA CORRETTA PIANIFICAZIONE
Una conoscenza dettagliata dell’ambiente fisico è presupposto imprescindibile per una corretta pianificazione, progettazione e gestione degli interventi per la protezione di un territorio. Ed in quest’ottica un aiuto nella prevenzione delle calamità e nella gestione del rischio può arrivare dalle più moderne tecniche di telerilevamento, che non solo consentono di monitorare i movimenti lenti del terreno conseguenti a fenomeni franosi e di subsidenza e di misurarne la loro velocità media, ma anche costituiscono un utilissimo supporto per le attività di modellazione idraulica, la perimetrazione delle aree a rischio esondazione, la modellazione idrologica e di individuazione delle aree esposte a pericolo in caso di alluvioni.
In quest’ottica va segnalata la messa a punto del Piano di Telerilevamento Ambientale, frutto di un Accordo di Programma tra Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Dipartimento della Protezione Civile e Ministero della Difesa.
Ma un aspetto fondamentale è senz’altro costituito dalla ancora inadeguata conoscenza del territorio, a causa della insufficiente rete di monitoraggio che non è in grado di fornire ai soggetti attuatori una appropriata definizione dei livelli di criticità. In mancanza della conoscenza di dati e di rilevamenti sistematici è impossibile formulare una giusta anamnesi delle disfunzioni e quindi mettere in atto le opportune contromisure. È pertanto indifferibile procedere alla progettazione, economica ed amministrativa, di sistemi di controllo e monitoraggio dei territori potenzialmente interessati da inquinamento delle risorse idriche sotterranee.
LA MANUTENZIONE DELLE OPERE
Ma la difesa del territorio si consegue anche con la manutenzione.
Nessuna opera pubblica è sicura, o meglio dire affidabile, se viene abbandonata a se stessa e quindi non in grado nel tempo di svolgere le funzioni ad essa affidata.
Neppure un piccolo acquedotto, per citare un’opera idraulica classica, è da ritenersi funzionale se abbandonato a se stesso. Ed infatti, per citare un esempio concreto, mentre dall’inchiesta condotta nel 1950 dall’Alto Commissario per l’Igiene e la Sanità era risultato che l’83% dei comuni centro meridionali era dotato di acquedotto, gli accertamenti di dettaglio effettuati poi dalla Cassa per il Mezzogiorno dimostrarono che la situazione reale era purtroppo ben diversa: opere esistenti in condizioni di degrado e tali da presentare in più casi un pericolo per le popolazioni da essi servite. Migliaia di chilometri di tubazioni furono trovate in condizioni tali da non risultare più utilizzabili e quindi da abbandonare.
Manutenzione spesso trascurata e che soffre, in modo pressoché sistematico, di una vacatio legis che produce una inadeguata disponibilità di risorse umane e finanziarie necessarie allo scopo. Trattasi, senza dubbio, di un problema di notevole complessità e serietà, dal momento in cui l’assenza di una necessaria azione manutentiva pregiudica, ed anche irreparabilmente in più casi, gli sforzi sostenuti da tutto il Paese per realizzare non solo un sistema di mitigazione del rischio idrogeologico, ma anche di tutte quelle opere idrauliche classiche.
Mantenere tutte le opere in perfetta efficienza e gestirle bene non è meno meritorio di averle ben studiate, progettate ed eseguite.
All’uopo, De Marchi così scriveva nel lontano 1962 nella sua relazione introduttiva al volume in cui veniva esposta ed illustrata l’opera della Cassa per il Mezzogiorno nel campo degli acquedotti e delle fognature nei dodici anni trascorsi dalla sua istituzione:
“la manutenzione delle opere costituirà un dovere ed un debito d’onore per i Governi italiani dei prossimi decenni”.
Concetto ribadito ancora una volta nella sua relazione conclusiva del Convegno “Le scienze della natura di fronte agli eventi idrogeologici”, organizzato dall’Accademia Nazionale dei Lincei nel novembre 1967:
“… Lo Stato deve assicurare la manutenzione delle opere esistenti che sono troppo spesso e da troppo tempo lasciate in deplorevole abbandono. Deve essere anche esercitata la necessaria vigilanza costante sulla rete dei corsi d’acqua che costituiscono un prezioso patrimonio nazionale”.
A conferma di quanto gli auspici di De Marchi siano ancora disattesi, potrebbe essere mostrate le tante immagini relative ad opere realizzate anche da pochi anni.
La difesa dell’ambiente: sintesi dei risultati significativi conseguiti dagli anni ‘80 ad oggi
- alla fine degli anni ’80 la necessità della difesa del territorio si è posta con impeto, assumendo un valore costituzionale primario con la storica legge 183/1989 (che individuava nel bacino idrografico l’ambito fisico ottimale per la gestione del territorio)
- a seguito, poi, del disastro di Sarno si sono fatti in Italia notevoli passi in avanti sulla conoscenza della complessità ed ampiezza dei fenomeni di rischio idrogeologico e sulla loro prevenzione e gestione grazie:
- al PIANO SARNO (opere progettate e realizzate, purtroppo solo in parte, nei comuni colpiti dall’evento del 5 maggio 1998);
- al decisivo contributo della comunità scientifica nazionale ed internazionale;
- ai PIANI DI ASSETTO IDROGEOLOGICO e la mappatura pressoché completa delle aree a rischio esondazione e frane;
- all’aggiornamento dei PAI;
- al monitoraggio del territorio con satelliti radar (messi in orbita tra il 2007 ed il 2010 dall’Agenzia Spaziale Italiana) le cui immagini possono essere efficacemente utilizzate per misure di altissima precisione dei movimenti del terreno;
- al Progetto ISPRA per le frane;
- a specifici dottorati di ricerca;
- alla formazione, aggiornamento ed organizzazione dei tecnici abilitati alla difesa suolo;
- alla legge sulla Protezione Civile: previsione, prevenzione e pronto intervento;
- al PIANO SUD, per le sette regioni meridionali (Delibera CIPE maggio 2012);
all’elenco precedente, aggiungerei anche:
- I CONTRATTI DI FIUME
Iniziati a diffondersi in Italia nei primi anni 2000, in particolare nelle regioni del nord e poi anche del centro sud.
Sono Protocolli giuridici ad adesione volontaria che, con la condivisione di un documento e con concertazione continua, consentono la partecipazione a tavoli decisionali di soggetti privati accanto alle amministrazioni pubbliche cointeressate, al fine di conseguire una accorta governance del bacino idrografico di un corso d’acqua (gestione delle risorse e salvaguardia del rischio idrogeologico).
Sono stati riconosciuti dallo Stato Italiano con la Legge 221/2015, ma senza regolamentazioni.
Potranno i CdF apportare benefici per la tutela dell’ambiente?
Ci si domanda
“che cosa non funziona ancora bene nella difesa dal rischio idrogeologico nel nostro Paese?”
La risposta non è ovviamente semplice. Ci sono, infatti, aspetti che meriterebbero maggiore attenzione, quali:
- la comunicazione del rischio:
- quando le persone hanno scarsa informazione su quello che può accadere non riescono ad individuare le azioni di tutela ed autotutela necessarie
- laddove manca ancora la più elementare misura di manutenzione (a Soverato fu un ponte ostruito a fare saltare tutto)
- le opere idrauliche abbandonate a se stesse non risultano più affidabili;
- la frammentazione delle competenze;
- molteplici sono gli enti su cui si articola l’attuale struttura organizzativa;
- la catena di responsabilità e catena decisionale;
- forte ritardo accumulatosi dopo gli Accordi di Programma, tra il Ministero dell’Ambiente e le Regioni italiane, nell’esecuzione delle opere di salvaguardia;
- l’inadeguatezza delle risorse economiche destinate alla realizzazione di interventi strutturali di prevenzione e mitigazione del rischio;
- “Per curare l’Italia servirebbero opere strutturali per 41 miliardi di euro” (Gabrielli 23/03/2012);
Quali sono le prospettive?
Bisogna essere ottimisti?
Ma essere ottimisti è un dovere
ALTRI RISCHI AMBIENTALI
Ma per la difesa del territorio non è certo sufficiente provvedere alla mitigazione dal rischio di inondazioni, frane e colate di fango.
Ci sono altri gravi rischi dai quali occorre salvaguardarsi, quali:
- Rischio erosione del suolo;
- Rischio erosione costiera;
- Rischio inquinamento dei corpi idrici superficiali, profondi e litoranei;
- Rischio desertificazione;
- Rischio contaminazione intenzionale (terrorismo);
- Rischio siccità;
- Rischio rifiuti pericolosi;
- Rischio connesso a cambiamenti climatici.
sui quali non si si sofferma in questa sede, ma che costituiscono, certamente, tematiche meritevoli di approfondite discussioni.