A parte la linea delle labbra di Greta Garbo in natura non c’è niente di perfetto. Eppure l’esistenza di Mario Tronti, dedicata con semplicità e rigore al pensiero critico del neocapitalismo e alla ricerca del soggetto per metterne in discussione il dominio, la perfezione a suo modo l’ha sfiorata.
Mario era piccolo di statura ma bello e proporzionato, e invecchiando aveva accresciuto il fascino. Ma non quello dello studioso, a lui essere un intellettuale un poco infastidiva. Tronti voleva essere, ed era, un militante rivoluzionario. E un intellettuale di tipo nuovo organico più alla classe che al partito.
Il fascino gli derivava dallo stile di vita, sobrio, riservato e anche un po’ abitudinario. E da quella apparente incertezza del tono dei suoi discorsi che era in realtà capacità di farsi ascoltare. Oltre naturalmente dal suo essere forse il più grande e solido filosofo politico italiano.
E poi, vuoi mettere, non tutti i grandi filosofi hanno la civetteria – e la gioia – di avere un nipote come Renato Zero, peraltro molto affezionato allo zio Mario.
In realtà aveva la forza culturale che ti permette di dare un senso alla vita e rimuovere come un semplice intralcio superabile perfino il mistero del trapasso. Pensava, scriveva e militava, a trent’anni come a 90, con la stessa vena insieme scettica e prospettica, come di chi però sa che i pensieri forti che sanno di scienza difficilmente muoiono con la fine fisica di chi è stato capace di pensarli.
Di Marx, Tronti fu cultore e interprete raffinato e attento ma non lo definirei seguace. Peraltro in lui c’era molto il piglio leniniano dell’azione, della messa in connessione del pensiero con l’azione. Non a caso, nel campo della narrazione cristiana, credo che a Cristo preferisse S. Paolo, che della cristianità ha eretto l’impero.
Con pochi ma attrezzati compagni di viaggio – Panzieri, Asor Rosa, Cacciari, Negri – stravolse l’approccio di una certa ortodossia marxista avventurandosi su sponde meno consuete e provinciali. I Francofortesi, Althusser, Nietzsche. Certo poi tra loro, questo gruppo di giovani pensatori e militanti rivoluzionari, ebbero come sappiamo le loro contraddizioni e distinzioni – seguendo anche percorsi molto diversi – ma il filo comune di eresia che li animò è rimasto in qualche modo intatto. Tronti tra loro era quello più politico.
Colsero subito che il grande sviluppo economico del dopoguerra stava modificando l’assetto del Paese, cambiando ogni cosa, perfino i modi di pensare. Quello suo e degli altri non era un anticapitalismo rozzo, non appartenevano a chi a quel tempo faceva vignette col capitalista grasso col cilindro o a chi – nel mondo comunista ufficiale – leggeva il capitalismo italiano come una macchina arretrata. Nel cogliere lo sviluppo e le grandi trasformazioni del capitalismo Tronti fu vicino a Ingrao, che se ne fece interprete nello scontro con Amendola all’undicesimo congresso del Pci nel ‘66. Solo in questo, però, perché la cultura ingraiana fu più vaga nella individuazione del soggetto di classe.
Tronti seppe pensare ciò che poi – almeno per tutta una fase – davvero si verificò. E cioè che quella nuova classe operaia prodotta da quel grande sviluppo industriale, giovane, spoliticizzata, più estranea al vecchio movimento sindacale, in una parola più autonoma, potesse diventare il soggetto capace, se non di sovvertire, almeno di ristabilire un equilibrio con il capitalismo.
E così fu in quel passaggio di straordinaria dirompenza. Le teorizzazioni di Tronti, e di quel gruppo di pensatori rivoluzionari, incrociarono e insieme diedero gambe, a quei mesi ed anni di formidabili lotte. Perfino prima dell’autunno caldo, con le lotte operaie torinesi fatte di inedita creatività (salto della scocca, interruzione delle linee di montaggio e così via). Costringendo il sindacato e lo stesso partito a rincorse e distinguo.
Era un marxismo diverso che trovava attuazione pratica in quel nuovo conflitto di classe. Il Marx dei Grundrisse più che quello del Capitale. La classe operaia che, grazie al suo essere intrinseca al capitale, sembra in grado per tutta una fase di negoziare l’estrazione del plusvalore, rompendo il monopolio della proprietà sul prodotto.
Mai nessuno prima da noi aveva spinto il proprio azzardo fin sulla soglia di una rottura rivoluzionaria di quel tipo. Del resto cos’altro è la rottura rivoluzionaria se non il riappropriarsi, da parte di chi li produce, dei risultati della propria produzione che la proprietà invece requisisce? E’ questa lezione teorica e pratica, così limpida, che segna tutto un ciclo del conflitto di classe da noi – principalmente – e in fondo in tutta Europa.
Forse anche per questo la sconfitta e la fine – che a un certo punto perfide arrivano – è proprio da questo punto di osservazione di chi aveva teorizzato e accompagnato dall’interno quelle lotte che risulta più sofferta e chiara. Per anni il residuo di quella stagione si trascinerà invece nell’equivoco confluito poi in un progressismo antiscientifico e idealistico che per molti aspetti sarà, e ancor più nella contingenza odierna, l’antitesi di quella sfida così tanto esaltante ma non per questo irrazionale.
E’ vero Tronti a un certo punto vira su ciò che è stato chiamato “autonomia del politico”. Il suo duro realismo rivoluzionario, preso atto della sconfitta sociale, lo spinge – piuttosto che a vaghe utopie movimentiste – a concentrarsi sul politico, quasi come sostitutivo della classe sconfitta.
C’è qui – a ben vedere – un oggettivo parallelismo con chi, parimenti, preso atto di quella sconfitta, punta egualmente al cuore dello stato con la scelta militarista. L’una e l’altra sappiamo saranno strade sbarrate e inefficaci, la seconda purtroppo anche con un portato tragico di sofferenze e di lutti.
Come più volte negli ultimi anni ha descritto Tronti ancora lì siamo. Anzi ciò che fu crisi sociale e di sistema – anche per l’incagliarsi del disagio dei ceti popolari nell’equivoco mortale del populismo – è diventata ormai crisi di civiltà. E’ in sostanza – mi pare – la stessa analisi di Massimo Cacciari.
E anche, a suo modo, di Negri. Che però, pur novantenne, sembra più disposto a investire su ciò che di contemporaneo oggi si muove. Magari con un eccesso di volontarismo, che ha sempre caratterizzato quest’altro filone dell’operaismo più portato all’azione diretta, saltando la mediazione e la necessità della politica.
Mario Tronti inevitabilmente con l’avvicinarsi dell’esaurirsi del suo tempo vitale ha cercato di ampliare la sua ricerca – peraltro filosoficamente già presente – intorno alla sua curiosità del sacro. Senza peraltro mai derogare dal considerare ogni incursione intellettuale inedita come punto di approfondimento teso a trovare strumenti attuali per combattere con efficacia la stessa e antica battaglia
Anche in questo Cacciari mi sembra il più vicino al trontismo. Forse perfino con qualche azzardo in più sulla possibilità improvvisa di punti di frattura tali da riaprire, inaspettati, la contesa col comando sul lavoro. Quel lavoro contemporaneo fatto in prevalenza di figure ormai diverse da quegli anni.
Figure precarie, frammentate, disseminate nelle grandi piattaforme tecnologiche del capitalismo globale contemporaneo.
Figure anche per questo prive, allo stato, di una coscienza di classe e tuttavia produttrici delle straordinarie innovazioni di cui – nuovamente incontrastato – il capitalismo oggi si appropria.