Ci si lamenta della morte del Padre in una società in cui persino i cartoni animati più famosi ne mortificano la figura, ma chi se non Telema(ti)co poteva venir fuori da una Penelope consumista che cancella ogni giorno l’acquisizione precedente e ogni tentativo di costruire una trama di significato e da un Ulisse vagabondo, trasformato, da missile balistico diretto verso l’obiettivo, in missile intelligente (Bauman) che cambia continuamente traiettoria e per questo creduto furbo e prudente?
Quale
retaggio paterno, quale eredità ne viene fuori in termini di cultura, e perché
stupirsi se gli eredi la rifiutano? Chi accetterebbe un’obbligazione debitoria,
ancorché di un congiunto a cui si è legati affettivamente? E di debiti
trasmessi ai figli non parliamo anche quando ripensiamo in termini di
responsabilità al clima e all’ ambiente? Non è forse il caso, parlando di
ambienti di apprendimento, di porre anche il tema di un’educazione e di un
modello di scuola sostenibile?
“La letteratura e i saperi umanistici, di cui la scienza è parte
integrante – a meno che si voglia credere ancora alla rozzezza della teoria
delle due culture – ha questo compito: resistere alla pretesa avanzata dai
portatori di interessi particolari nella società di risolvere completamente l’educazione
nello spazio e in funzione di questi interessi. È, per dirla tutta, una pretesa
totalitaria che, sebbene formulata in termini di buon senso democratico e con
argomenti che vengono dall’economia e non più dalla politica, non cessa per
questo di essere tale: appunto, un’idea totalitaria che abolendo l’autonomia
della cultura mira alla funzionalizzazione dell’educazione.” (cit. Adolfo
Scotto di Luzio).
In realtà, in questi 20 anni si è anche funzionalizzata l’autonomia alla cultura del particolare, si è compreso bene che le scuole dell’autonomia esprimono “quella cultura del ‘particulare’ che appartiene al DNA del nostro Paese, da cui deriva un localismo diffuso, alternativo a disegni fallaci di riforma” (Dutto) e quindi, con la variabilità dei risultati di apprendimento, tutto dipenderà dal vissuto e dalla gestione delle singole scuole.
A questo punto, mi chiedo, pur non riuscendo a liberarsi del funzionalismo, in quelle scuole dove con pazienza e resilienza i colleghi hanno continuato ad ‘agire le discipline’, a questi colleghi, cosa si dirà quando le loro pratiche didattiche “non più rispondenti a domande in evoluzione” paradossalmente e inaspettatamente consentiranno il raggiungimento dei traguardi attesi?
Se queste pratiche di “immersione disciplinare” (invece che meramente comunicativa – leggi CLIL, ma in generale tutto il discorso sulle competenze si può ridurre ad un potenziamento comunicativo) dovessero risultare funzionali e da consolidare…? Insomma, se una didattica più valoriale e fondata sulle discipline agite si rivelasse più efficace nonostante in questi anni avessimo trattato le discipline come saperi procedurali, e procedurali ed organizzative sono state anche le modalità della loro costruzione e valutazione? (si legga in proposito l’appello dello SFI)
Se qualcosa fosse strenuamente sopravvissuto e si rivelasse capace di incidere proprio sulla formazione delle character skills a cui tutti sembrano ora voler ritornare… se la scuola delle discipline si rivelasse più adatta a compensare quell’attenuazione della capacità adulta di presidio delle regole e del senso del limite, di cui parlano finanche i documenti ministeriali? avremmo il coraggio di puntellarla e custodirla come sensato? Se la resilienza con cui affrontare i cambiamenti futuri avesse a che fare direttamente con la resistenza alla fatica mentale e allo studio? Una scuola che ovviasse alla morte del Padre o al proliferare di genitori elicottero pronti a rimuovere ogni ostacolo sulla strada dei propri figli, una scuola che ritrovasse autorità, per dare regole di comportamento o per richiamare gli studenti all’impegno e alla serietà degli studi, e autorevolezza perché capace in prima persona (quale comunità educante) di praticare quotidianamente quel lavorare insieme e in corresponsabilità che tentiamo di insegnare- anche con l’alternanza scuola lavoro (riformata) e con le pratiche del Service Learning – una scuola di questo tipo non testimonierebbe la sua funzione proprio riprendendo a “funzionare”? Il diritto nasce dal dovere compiuto, diceva mio nonno, e con lui ero felice… Più tardi avrei compreso quello che sostiene anche A. Polito nel suo libro “contro i Papà” che non c’è felicità nelle cose ottenute per diritto, “senza essere conquistate, senza essere chieste, senza passare attraverso una frustrazione assolutamente positiva”. Vanno bene le metodologie euristiche, per problemi, by doing, ma ridateci anche l’interrogazione, ovvero una relazione necessariamente asimmetrica, come strumento di contenimento dell’Ego adolescente, oggi orfano del principio di Realtà e conseguentemente psicoastenico. Se l’interrogazione e la lezione frontale avessero ancora questo senso, un’occasione in cui può sorgere, inaspettata, un’intuizione, un collegamento, un’idea a cui non avevo pensato e che determinerà molte delle mie scelte future? Non avrebbe senso ripartire proprio da queste epifanie didattiche? dal lasciarle essere e non cambiarle in nulla proprio per cambiare tutto (un rovesciamento del motto gattopardesco!) nel nostro procedere a tentoni? Non si invererebbe il motto di sir K. Robinson “the history of human achievement is that people have done remarkable things from very improbable beginnings”?
Il valore aggiunto che la scuola riesce a determinare, non dipende tanto dal coordinamento corretto, cioè dalla capacità di mettere nella migliore combinazione tutti i fattori che possono entrare in gioco per ottenere il risultato atteso, dal migliore uso e distribuzione delle risorse, dal definire gli obiettivi e i sistemi di controllo: tutto questo non porta ‘automaticamente’ al risultato in nessun ambiente organizzativo e qualsiasi manager sa che in una Learning organization i risultati a volte precedono gli obiettivi. Gli obiettivi si capiscono dopo, in base a tante variabili che non sono lineari, ancor più in un sistema complesso a legami deboli quale la scuola dove queste variabili, in continuo riorientamento e riequilibrio (De Toni e Comello) questi imprevisti, vanno sollecitati.
Tra questi accadimenti imprevisti c’è quello che occorre sollecitare di più perché è quello che restituisce Legittimazione Sociale alla Scuola, ma che non siamo più attrezzati a riconoscere e valorizzare, consolidare e mettere a sistema perché oramai imprevisto: è l’ evento educativo, un’intesa che “accade” tra persone e quando accade occorre riconoscerla e solo dopo programmarla… questo doveva essere il senso delle UdA: sostituire la logica programmatoria tanto della scuola burocratica pre-autonomistica, quanto della scuola aziendalista pseudo-autonomistica!
Io dico, continuiamo pure a combinare i fattori dell’educazione in modo corretto e funzionale, ché di questo funzionalismo è oramai realisticamente impossibile liberarci in tempi brevi, ma non perdiamo la capacità di cogliere l’imprevisto e di scommettere anche su ‘inizi improbabili’ (very improbable beginnings).
Forse anziché chiedere alla pedagogia e alle scienze sociali di immaginare un futuro su cui poi modellare la scuola, varrebbe la pena riabilitare il genio dell’invenzione filosofica, certo atrofizzato da tanti anni di coltivazione dei talenti tecnico-pratici e di obbedienza al principio prestazionale per cui è valido ed efficace solo ciò che è utile.
Come in epoca gentiliana, la Scuola ha di nuovo bisogno di (una) Filosofia. Non parlo di un principio guida, di cui peraltro anche la scuola delle competenze sembra dimostrare l’assenza (De Monticelli), ma di un “riprendere ad osservare” (l’osservazione sistematica della scuola dell’infanzia!) non ciò che è “funzionale a”, ma “ciò che funziona bene nella relazione educativa” e ritrovarvi senso. Dico che l’Evento pedagogico richiederebbe forse uno sguardo fenomenologico, e forse anche una traduzione più efficace dell’avvertimento di Heidegger “we have no regard to the fact that much too much is happening, and very little of it has an effect” (cfr. “Condizioni del confronto con Hegel”).
Non sappiamo a cosa preparare le generazioni che ora entrano a scuola perché non siamo più in grado di prevedere scenari futuribili da qui a 20 anni, sappiamo però che nello spazio tra il presente e il futuro più prossimo la crisi investe già aspetti di progresso materiale e spirituale (art. 4 Costituzione) e dunque di senso. Perché la scuola esca prima di altre istituzioni da questa crisi di senso occorre presidiare almeno tre dimensioni fondamentali: 1) il legame e il rapporto tra docenti e alunni; 2) la collegialità o meglio la comunità e 3) il rapporto con l’esterno: queste relazioni sono al centro dell’evento pedagogico e di una didattica epifanica. Un gioco di eccedenze come ama ripetere D. Nicoli: “Il processo educativo non accade in quanto i fattori sono posizionati bene, ma accade in quanto succede un evento tutti i giorni, tutte le ore, in un’aula in cui questi ragazzi intorpiditi dalla serata, dalla noia, eccetera eccetera si risvegliano in base all’ entusiasmo e la passione che l’insegnante di turno manifesta nei confronti della materia che insegna nei confronti dei loro studenti e della realtà in cui vive.
La caratteristica professionale degli insegnanti è l’eccedenza cioè aspettarsi l’inaspettabile, vedere positivamente. Giocare come se la classe che io ho di fronte fosse fatta di soggetti più apprezzabili, migliori, che possono essere migliorati: allo stesso tempo questo comporta un’eccedenza di prestazioni, da parte di studenti che, sentendosi investiti di una stima, di una fiducia eccedente, rendono più di quanto darebbero se non ci fosse questa condizione e così pure, nel momento in cui accade questo evento e l’insegnante ha fiducia dei suoi studenti e li tratta meglio, si aspetta da loro di più, i ragazzi -essendo deboli dal punto di vista dell’ autostima (perché la generazione giovanile di oggi è fragile)- sentendosi investiti di questa fiducia restituiscono con prestazioni migliori; la famiglia riconosce nei propri figli i segni dell’umanità che si aspettava (studiano, sono curiosi, imparano, son contenti di andare a scuola) la società concorre felicemente a questo gioco che a questo punto diventa una specie di corsa alle eccedenze, l’azienda fornisce esperti, rende disponibile occasioni di stage, altri soggetti, l’ ente locale, il Museo, eccetera, recuperano capacità educativa, tutti coinvolgono le scuole e accade l’ evento educativo” (D. Nicoli)… come ha origine? l’ origine sta nell’ eccedenza…
Ora che abbiamo messo mano abbondantemente alla tecnicalità della costruzione e certificazione delle competenze, ora che abbiamo fatto nostra la logica dell’urgenza sottesa alla loro spendibilità, occorre metter mano all’urgenza di una logica: come riavviare questo gioco di eccedenze e operare una seria ricostruzione dei legami.
Viceversa, il rischio, già attuale, è che nella scuola dei progetti e delle competenze, molto ma molto succeda, e davvero poco accada!