La fase di rendicontazione sociale delle scuole prevista dal Sistema nazionale di valutazione mi fa pensare alla necessità, forse urgente, anche di una Rendicontazione didattica: anche per capire se l’Europa ci abbia aiutato a passare alla fine da un sistema di saperi gerarchizzati ad un sistema di saperi contaminati, o non ci abbia forse imposto un’idea di Homo Oeconomicus, nemmeno tanto efficace in epoca di società liquida e analfabetismo funzionale. Un modello di società che sembra aver dichiarato guerra alla stabilità in ogni sua forma, aspirando, su questo mi secca dare ragione a D. Fusaro, “a rendere tutto mobile e on demand, dalla produzione delle merci all’esistenza dei soggetti … il migrante e il precario sono strutturalmente affini. Sono emblemi della precarietà e della disoccupazione, in balìa di un nomadismo in cui si condensa l’essenza della situazione precaria, caratterizzata strutturalmente dall’assenza di una casa stabile, ove creare una famiglia ed elaborare progetti di vita basati sulla fedeltà alla scelta”.
Quali apprendimenti dovrà promuovere la scuola per essere funzionale in questa società? La scuola deve essere un luogo dove provare ad essere felici, a ricercare la felicità? E se lo scopo ultimo della vita non è più quello indicato da Aristotele -il raggiungimento della felicità personale e la realizzazione di sé stessi – se il lifelong learning (l’apprendimento permanente) e la resilienza sono le uniche chiavi valide per affrontare un futuro in costante mutamento, se dobbiamo preparare i giovani alla possibilità di cambiare costantemente lavoro, casa e legami, se la realizzazione di sé resta costantemente in potenza, per tutta la vita … dall’altra parte -come piano B! -non dovremmo ripensare anche a come presidiare nella scuola un’alternativa di senso? Darle una chance di germogliare, proteggerla, custodirne le motivazioni, insegnare a sostenerle e argomentarle a sé stessi prima che agli altri. Di questa scuola non si rende mai conto e ci si concentra piuttosto sul rendicontare l’acquisizione degli apprendimenti, salvo poi preoccuparci che ci si riduca ad apprendimenti funzionali al compito, passato il quale si rendono non più funzionali e, se non calati in un ciclo di ridondanza (la spirale di Bruner), restano inerti, obsolescenti, come ogni prodotto tecnologicamente avanzato (ad obsolescenza programmata).
Produciamo obsolescenza programmata e dissipiamo acquisizioni prima che si sedimentino e trovino un ragionevole accomodamento. Questo disfare la trama di significati provoca analfabetismo funzionale – o qualcosa di analogo alla sindrome di Penelope: prestazioni procedurali e competenze scarsamente riconducibili a un senso e ad un progetto. È tempo dunque di rendicontare, di dar conto di questa didattica dissipativa, di quest’altra forma di dispersione nella scuola.
Con l’introduzione delle Unità di apprendimento (introdotte dalle norme morattiane, confermate dalla Buona scuola che le richiama nell’assetto didattico dei nuovi Istituti professionali) la didattica italiana doveva spostarsi dalla parte della programmazione a quella della rendicontazione dell’evento pedagogico (mi piace molto come usa questo termine il sociologo D. Nicoli, e ancor più quando Sir K. Robinson lo declina come “Ephifany”).
Era un salto molto ardito, anche perché presupponeva “una trasformazione della didattica seriale in didattica ‘epifanica’ e la trasformazione della programmazione preliminare in piano di lavoro e di verifica progressiva degli apprendimenti dei propri allievi” (Stefanel).
Unità di “Apprendimento” perché era chiara, come oggi, la necessità di trasformare le scuole da luogo di insegnamento in luogo (ambiente) di apprendimento: su questo non tornerei indietro, convinto da una sostanziale continuità con l’Attivismo pedagogico.
Il tarlo che mi rode deriva invece dal pensare che “il concetto di Unità di apprendimento si è sviluppato in ambito europeo quando si è cercato di trasferire i crediti da un sistema dell’istruzione o della formazione o universitario da uno Stato all’altro. Appurata l’impossibilità di trasferire i diplomi così come erano stati acquisiti nei vari Paesi nell’ambito dell’Unione Europea si è fatta strada la certezza che solo attraverso una certificazione delle conoscenze, abilità e competenze (alte) realmente acquisite si sarebbe potuto raggiungere un sistema trasparente e operativo di trasmissione delle persone nell’ambito della società della conoscenza” (sempre Stefanel).
Insomma, la libera circolazione europea è una cosa e la mobilità occupazionale, con piena spendibilità dei titoli, è un’altra, in quell’Europa che aspirava a diventare l’Economia della Conoscenza più competitiva al mondo.
In effetti, lo sviluppo di una certa operatività nella scuola, la ricerca attorno alle competenze, l’individualizzare e personalizzare l’offerta didattica per accompagnare l’apprendimento permanente (LLL), un’idea di persona, che deve raggiungere il “successo formativo” (di cui parla il D.P.R. 275/99) mi porta a considerare che in 20 anni di riforme della scuola abbiamo:
– Dato nuovi spazi di scelta alla FAMIGLIA (il tempo scuola, l’offerta didattica più convincente a prescindere dalla viciniorietà) e riconosciuto capacità educativa alle IMPRESE per poi tenere in scacco la prima, col timore agitato dalle seconde, riguardo il successo lavorativo dei figli e della necessità di scegliere offerte concorrenti (non solo tra scuola privata e pubblica equiparate, ma tra pubblico e pubblico con Scuole in Chiaro e gli altri strumenti della Fondazione Agnelli…). Lì dove poi la logica on demand avrebbe avuto più senso, nel sistema di passaggi tra FORMAZIONE e ISTRUZIONE, abbiamo anestetizzato la responsabilità individuale e dunque l’esercizio dell’autonomia, preoccupandoci della precocità. All’infanzia e alla primaria sì, le famiglie possono chiedere l’ammissione precoce ma no, al momento di scegliere il futuro dei propri figli, troppa responsabilità… e allora restiamo più sul modello cattolico del pentimento-eventuale-ripensamento che su quello protestante della Beruf e del Destino da accettate a 13 anni: per cui in Italia non c’è né un sistema Duale, né un azione di orientamento veramente strutturata fin dalle medie (che forse solo a questo dovrebbero servire, nel loro impianto più disciplinare rispetto alla primaria!), ma in compenso abbiamo un peculiare sistemi di passaggi, perché si fa sempre in tempo a cambiare idea (in realtà l’irreversibilità determina un campo di azione in cui occorrerebbe responsabilità per scegliere la via che più redime e risolve il passato, ma qui entriamo nel relazionismo fenomenologico di E. Paci, meglio rimandare l’argomento).
– Strutturato percorsi e organizzazioni – la scuola azienda che auto-valuta la qualità del servizio e dei risultati da comunicare agli stakeholders – funzionali ad un’impiegabilità continuamente in mutazione e all’acquisizione di una mentalità costantemente adattativa e imprenditiva, perché bisogna imparare ad arrangiarsi e ad imparare, soprattutto per fronteggiare la crisi economica globale e locale. Ovviamente, i manager di scuola a cui viene richiesto pragmatismo e capacità di radicarsi nelle evidenze di ricerca per sostenere il Paese nella crescita rallentata da competenze inadeguate (cfr. M.G. Dutto) finisce per sfuggire il perché l’utente cliente genitore utilizzi il servizio, ma non partecipa al miglioramento del servizio stesso, lasciandolo agli operatori interni e riservandosi la pretesa della qualità e dell’eventuale contenzioso (che ha sostituito la contestazione: dal collettivo all’individualismo il passo è stato davvero breve!).
– Sostenuto che era il modello di educazione precedente ad essere funzionalista e schiacciato sull’organizzazione tayloristica, fin dalla scelta degli ambienti (file di banchi) e della disciplina imposta. Non è forse funzionale anche questa dispersione didattica con cui abbiamo minato l’orario curriculare delle lezioni al mattino (con orientamenti, alternanze, Clil, prove parallele, simulazioni d’esame, prove invalsi…) ed esploso i campi di esperienza della disciplina? (questa volta disciplina come sinonimo di materia, anche se la materia si insegna e la disciplina si agisce).
Quanti professionisti entrano in aula chiedendosi dove sia finita mai, anche quel giorno, la propria classe e che ne sarà del lavoro progettato? Questo totale svuotamento della routine negli apprendimenti (la sua importanza resiste solo alla scuola dell’infanzia) cui prodest?
– Addirittura abbiamo riconosciuto importanza, se non priorità, anche alle competenze non cognitive, purché funzionali a gestire la disistima di sé perché avremo bisogno di declinare già da oggi i linguaggi dell’empowerment dei centri per l’impiego – cari ragazzi! – per essere pronti quando perderemo o dovremo cambiare continuamente lavoro: spazio dunque alla crescita ben guidata della personalità, ovvero alle competenze personali (n. 5 per l’UE) intese come conoscenze, abilità e atteggiamenti funzionali al diventare resilienti al cambiamento (il postmoderno che recupera il premoderno e la pedagogia umanista… D’altronde le Università laiche non nacquero anch’esse in epoca comunale, proprio su istanze economiche dei ceti produttivi?)