Ora possiamo dirlo a voce alta e senza temere smentite: l’Olio d’oliva “pompeiano” per eccellenza, cioè l’Olio di oliva Igp Campania “PUMPAIIA”, scritto con la doppia “i”, batte in partenza ogni altro Olio d’oliva che voglia dirsi a sua volta pompeiano in qualche misura, a torto o a ragione.
Nella mattinata del 30 ottobre 2023 negli Scavi di Pompei si è infatti tenuta la “cerimonia” semplice, ma fortemente significativa, anzi anche evocativa, della prima “frangitura” delle olive pompeiane e di quelle provenienti dai circa trecentocinquanta alberi di olivo dei siti pompeiani affidati alla gestione del parco Archeologico di Pompei. E’ ufficialmente nato l’olio PUMPAIIA che sarà prodotto dalle circa trecentocinquanta piante di Polivo esistenti tra gli scavi di Pompei, compresi i siti della Civita e della Giuliana, nonché tra gli altri siti del Parco Archeologico, di Stabia e dovunque siano presenti le antiche cultivar nostrane come: Minucciola, Ogliarola, Olivella, Pisciottana, Ravece, Rotondello e Nostrale, oggi a rischio d’estinzione.
Da parte sua il Parco sta poi marcando una chiara e nuova rotta – di grande interesse per i pompeianisti attenti anche al territorio dell’Ager Pompeianus, nella scia tracciata da Amedeo Maiuri e poi abbandonata – ma oggi rinascente per iniziativa del giovane Direttore Gabriel Zuchtriegel. La Coldiretti – con UNAPROL e Filiera ITALIA – fa sapere che le prime bottiglie d’Olio PUMPAIIA serviranno anche a sostenere la candidatura a Patrimonio dell’Unesco della Cucina Italiana, di cui proprio l’olio extravergine rappresenta una risorsa fondamentale, oggi a rischio. E rimanda al Logo ufficiale presentato pochi mesi fa presso il Parco Archeologico di Pompei dai ministri dell’Agricoltura e Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida e della Cultura Gennaro Sangiuliano.
L’evento della prima frangitura delle olive appena raccolte si è svolto presso l’Orto dei Fuggiaschi, che si trova nella parte meridionale della Regio I, praticamente a ridosso della Porta urbana pompeiana detta di Nuceria perché apriva sulla consolare che portava da Nuceria a Neapolis, appunto.
Una direttrice Est-Ovest percorsa e ripercorsa dalle genti vesuviane e dai mercanti di ogni dove che attraccavano sulla costa pedevesuviana, anche dopo le ricorrenti sfuriate vulcaniche dello Sterminatore, protagonista de “La Ginestra” leopardiana. Una direttrice la quale, nel suo tratto “pompeiano”, costeggiava forse i lembi settentrionali della laguna, la “dulcis palus” che divideva la romana Pompeii da Stabiae.
Da sempre. Anche quando POMPEI si chiamava PUMPAIA.
Ma anche l’Olio Igp Campania – con scelta intelligente e pregnante, che trasuda cultura sedimentata – è stato così “etichettato”, con evidente rimando alla Pompei preromana. Alla Pompei Osca, tanto per parlare fuori dai denti. Perché ora ci è lecito dire così.
Possiamo dunque ora dire anche: Ecce Nomen! Finalmente! parafrasando senza irrispettosa ironia qualche canto gregoriano omonimo. E, arrivati a questo punto, possiamo ricorrere a un nostro stesso stralcio, tratto dal libro: “Pompei. Misteri del Tempio di Iside. Le radici liquide della terza Pompei” scritto e pubblicato appena due anni or sono per i tipi di Flavius Edizioni, nel 2021, in piena era COVID, ahi noi!
Ecco lo stralcio: (…) E’ la vittoria della cultura millenaria di un Popolo sulla storia avversa. Nel caso di Pompei la vittoria toccò alla cultura osca. D’altra parte lo stesso nome “Pompei” sembra derivare dall’osco. Il nome osco infatti, prima di latinizzarsi in Pompeii, derivava all’antica Pumpàia dalle sue case alte e svettanti sull’orizzonte della piatta pianura circostante, secondo una tesi che io riprendo direttamente dal passato. Lo afferma, con pochi altri contemporanei, Cataldo Janniello, il cui cognome nella storiografia è spesso storpiato, tant’è che nelle fonti – e nel Web cui rimando il lettore per ogni approfondimento – è riportato sia alla voce Janniello che Jannelli. Il nostro era un dotto lucano di Brienza, filosofo e archeologo, egittologo ed etruscologo. Egli fu Bibliotecario reale, ma anche uno tra i più autorevoli studiosi di lingua osca espressi dall’Ottocento. Ma di questo riparleremo più avanti.
Sull’origine del nome di Pompei, Janniello si pone fuori dal coro delle vestali della ortodossia, impaniate nel dibattito inconcludente intorno alla sua derivazione: dal greco Πoμπε per indicare il numero Cinque dei suoi piccoli insediamenti arcaici o delle sue originarie porte urbane, dal latino Pompa per la sua magnificenza, oppure ancora dal greco Πεμπo per l’attività dei suoi spedizionieri.
Janniello invece propone Pumpàia e aggiunge che già le genti campane per prime avevano definito il sito con il nome di Pumpèja, riconoscendo al nucleo abitato la caratteristica particolare delle sue case alte e quindi imponenti sulla rupe lavica che le accoglieva. In ogni caso, dunque, possiamo parlare di radici campane e osche per la Terza Pompei.
E qui io aggiungo per il lettore di ambito geografico linguistico napoletano che il termine Pumpèja molto probabilmente risulta foneticamente familiare alle sue, come alle mie orecchie. Infatti, nella pronuncia del nome di Pompei, ancora oggi riaffiora nella parlata dialettale della piana sarnese nocerina una “e” slargata. Quel suono, dalla “e” larga e un po’ sguaiata, riemerge intatto dalle nebbie dei millenni. Non a caso c’è chi fa derivare “osceno” dal parlato osco delle Atellane. A dimostrazione del fatto che le parole, anche quelle parlate, durano più delle pietre.
Fuori dal coro degli ortodossi si pose anche il napoletano Raffaele Garrucci, erudito gesuita, filosofo e teologo, discusso studioso del Cristianesimo, anche lui come Janniello membro dell’Accademia Ercolanese. Garrucci fu gran viaggiatore e protagonista della cultura “antiquaria” – nel senso di archeologica – dell’Ottocento, non solo a Napoli, ma anche a Roma. A suo modo anche il gesuita però fu un eretico, discostandosi spesso dalle teorie prevalenti dell’Archeologia togata del proprio tempo che egli trattava e maltrattava nelle sue “Questioni Pompeiane” a metà dell’Ottocento.
Garrucci afferma che “Coloro che ci deducono Pompei da Πομπεῖον, greco vocabolo, spiegato dal loro Emporium errano gravemente”. Poi Garrucci rincara la dose affermando che gli “…Osci scrivono costantemente, cioè Pumpàiia e che nei codici di Strabone si legge “… Πομπαία, Πομπεία e Πομπηία variamente …”, sempre con riferimento alle loro case imponenti come monumenti pubblici.”
Il lettore avrà notato che le fonti sono vecchie di circa un paio di secoli. Esse sono state poi sovrastate da vulgate più moderne, anche se più fantasiose e poco sostenibili, ma gradite al potere dominante. Noi, indipendentemente da altre questioni sulla lingua osca – ancora sostanzialmente inesplorata, non soltanto per la sua accentazione – che lasciamo volentieri agli esperti.
Noi sottolineiamo, per ora, soltanto che chi ha deciso che l’Olio pompeiano dovesse chiamarsi Olio PUMPAIIA, ci ha… azzeccato. Eccome!