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Napoli non è terzo mondo, è altro mondo

by Pietro Spirito
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Le Figaro ha definito, in un suo recente articolo, Napoli come una città del terzo mondo. Apriti cielo, ovviamente. Sono partite subito, sui social e nella discussione pubblica, le bordate cittadine a palle incatenate. Ma come vi permettete – voi francesi – di dare giudizi così affrettati e radicali? Proprio voi che venite ad ammirare da turisti le bellezze della città e che non conoscete neanche l’uso del bidet?

Varrebbe forse la pena di alzare lo sguardo un po’ più verso l’orizzonte, cercando di cogliere l’opportunità di questa inopportuna presa di posizione per ragionare sul futuro della città. Napoli non è una città del terzo mondo, ma piuttosto è una città dell’altro mondo.

Cerchiamo di circostanziare questa definizione. Lo scrittore Luigi Compagnone aveva definito Napoli l’unica città orientale priva di un quartiere occidentale. Benedetto Croce aveva parlato di un paradiso abitato da diavoli. La metropoli partenopea si presenta sostanzialmente con caratteristiche che impediscono di inquadrarla in una casella definitoria.

Tutto, come spesso accade, deriva dalla storia. Nel diciottesimo secolo Napoli era una metropoli europea, la terza per abitanti: possedeva un centro di cultura con pochi rivali nel mondo. Una grande capitale ha iniziato il suo processo di progressiva decadenza e marginalizzazione. Ma, come spesso accade, resta la memoria genetica di ciò che si era, mentre si perde la memoria di ciò che si è diventati.

Questa condizione pone la città nella dimensione che ho definito “altro mondo”, in una condizione che non è più il passato, ma non è mai nemmeno il presente, e – soprattutto – non sarà mai il futuro. Si vive di nostalgia, parola che deriva da due radici greche: “dolore del ritorno”. Siamo sospesi nell’eterno passato, nell’eterno ritorno.

Il terzo mondo, invece, è perfettamente consapevole della sua condizione di arretratezza, ed indirizza tutte le energie per ribaltare questa marginalità, come dimostrano i percorsi che sono stati avviati da tutti i Paesi in via di sviluppo, che costituiscono la grande novità dell’economia internazionale nel corso degli ultimi decenni.

L’altro mondo, la dimensione nella quale è collocata Napoli, rimane sospeso nella sua condizione ancorata allo specchietto retrovisore. Guarda sempre indietro allo splendore che fu, non riesce a comprendere la minorità che c’è. Anzi, si offende. Ma come, noi che siamo stati storia, noi che siamo paesaggio, noi che eravamo cultura, dobbiamo anche essere giudicati?

Napoli è nobiltà decaduta, araldica lucidata sempre a nuovo, luminarie e lustrini che vanno a punteggiare, accecandoli, tutti i problemi quotidiani che è noia affrontare. Napoli è spasmodica attenzione a demolire chi cerca di costruire, perché conta essere sempre capaci di rigettare indietro chi prova a smuovere le acque stagnanti della depressione.

“Napule è ‘na carta sporca, e nisciun s’ n’ mporta, e ognun’ aspett’ a ciorta”. Lo cantava, qualche tempo fa, Pino Daniele: aveva capito tutto. Viviamo nell’altro mondo, nella nostra dimensione sospesa per aria, nella bolla della nostra eternità.

I francesi non hanno capito nulla. Assegnandoci alla dimensione del terzo mondo, si illudevano che avessimo la capacità di reagire alla nostra condizione, per scalare le classifiche e tornare ad essere dove eravamo un tempo. Noi vogliamo restare nell’altro mondo, dove non esistono programmi, dove non si mette in discussione nulla, dove l’immobilismo regna sovrano.