L’Autore, già Ministro dei trasporti, è stato Rettore dell’Università Telematica Pegaso.
Due novità rilevanti sono emerse all’indomani delle dimissioni del Ministro Fioramonti.
La prima è la separazione delle competenze ministeriali tra Scuola e Università, come era avvenuto l’ultima volta nel 2006 con il Governo Prodi II (e come sarebbe logico fare anche con altri ministeri).
Chi ha un minimo di dimestichezza con la conduzione di un ministero e, in particolare, con il ruolo e i compiti di un Ministro sa che si tratta di una scelta quanto mai opportuna, al contrario di quanto pensano molti sprovveduti dell’ultima ora.
E’ evidente che Scuola di ogni ordine e grado e Università appartengono al medesimo campo tematico della formazione e, quindi, vanno tenute in stretta correlazione, ma le specificità di ciascuna sono numerose e diverse e richiedono una governance adatta, che non può essere affidata a deleghe conferite a viceministri o sottosegretari. Occorre che il titolare della competenza sia presente nel Consiglio dei Ministri, là dove si prendono le decisioni ultime, e che i titolari dei vari Dipartimenti ministeriali sappiano di avere un riferimento autorevole in quella presenza.
Poi, a partire da questa condizione, è necessario creare uno snodo funzionale tra Scuola e Università per orientare una ragionata e consapevole transizione dall’una all’altra, cosa che oggi è del tutto trascurata.
Vi è poi un secondo aspetto che rende quanto mai opportuna l’esistenza di un Ministero dell’Università ed è che questo, in realtà, deve essere il Ministero dell’Università e della Ricerca. Questa specificazione dovrebbe essere del tutto superflua se si avesse la consapevolezza che Università è Ricerca, vale a dire che non può esistere una Università in cui non si fa ricerca, perché questa è la linfa vitale di cui si alimenta la didattica. In altri termini parlare di Università senza ricerca è una contraddizione in termini. E qui si apre un enorme campo di riflessione che riguarda per un verso la politica della ricerca nel nostro Paese, dall’altra il ruolo di molte Università nelle quali la pratica della ricerca è, per molteplici motivi, ridotta ai minimi termini.
La seconda novità rilevante riguarda la scelta del nuovo Ministro dell’Università che, di per sé, rende speciosa qualsiasi considerazione su logiche spartitorie e soluzioni di compromesso, che pure sono state subito avanzate.
Stiamo parlando del Rettore di una delle più prestigiose Università italiane e del Presidente della CRUI, ovvero l’organismo che riunisce la quasi totalità dei Rettori delle Università italiane. Dunque una scelta non discutibile che, dopo moltissimi anni in cui si è operato al contrario e al ribasso, premia la competenza, un criterio semplice e intuitivo che andrebbe applicato a tutti i livelli di governo della cosa pubblica.
Viceversa l’interrogativo che ci dobbiamo porre è un altro: riuscirà il nuovo Ministro, nella nuova configurazione ministeriale, ad affrontare e avviare a soluzione i gravissimi problemi dell’Università italiana, ivi compresa la ricerca?
Evidentemente nessuno sa dare risposta a una questione di là da venire, ma sarebbe dissennato dire “stiamo a vedere” se la situazione è quella che viene ormai ritualmente ripetuta. Laureati (25-34 anni): 26% contro una media europea del 40% (i peggiori in Europa). Investimenti: 1.6% del PIL contro 3.1% della media OCSE. Finanziamenti per studente: 11.510 dollari contro 16.422 in Francia e 17.180 in Germania (OCSE, Education at Glance, 2017).
Allora quello che dobbiamo chiedere è: Signor Ministro qual è la sua visione dell’Università da qui ai prossimi dieci anni? Quali sono le azioni che intende promuovere per inverare quella visione? E qual è il programma – tempi, risorse, strumenti – in base al quale far procedere giorno per giorno l’attività del Ministero da Lei guidato?
Se si misura la complessità delle risposte che queste domande richiedono con la stagnazione che la politica universitaria ha mostrato da molti anni a questa parte, c’è da essere poco ottimisti. Ma il cambio di passo sta tutto qui!
Sta nella capacità di mostrare una visione del ruolo dell’alta formazione e della ricerca che sia di alto profilo e di lunga prospettiva, il che finora non è appartenuto né alle logiche dei Governi e dei Parlamenti né, meno che meno, a quelle dei partiti. Il cambio di passo appartiene alla logica di chi sa cosa vuol dire governare pensando al futuro del Paese.