Si riapre. Ovviamente, come i lettori più attenti avranno capito, è circa la terza volta che Milano riapre. La seconda maggiore. La prima è stata due settimane fa, quando hanno riaperto le industrie ed alcuni uffici. Doveva essere l’apocalisse, ma salvo qualche dato fuori media, il calo dei contagi sembra essere proseguito. Insomma, no, il lavoro non renderà liberi ma non diffonde nemmeno necessariamente il morbo. I Navigli non sono stati veicolo di contagio ed i “giovani indisciplinati” non sono stati i nuovi untori. E sono tutte buone notizie. Ma la migliore di tutte è un’altra: Milano è più forte della sua narrativa.
La città da bere, degli aperitivi, fatua e mondana, il miraggio volubile basato su pubblicità e social media si è riscoperta concreta e borghese. Mentre tutte le fonti di divertimento sono crollate, chiusi in casa ed impossibilitati a quelle attività di networking che apparivano connaturate alla città, Milano è cresciuta. Sono nate 3.000 imprese. E ieri, per strada, la città, in maniera ordinata è tornata a respirare. Certo, non va tutto bene. E qui, a parte qualche striscione di facciata, nessuno l’ha mai creduto. E tanti, forse troppi, in età lavorativa sono in giro invece che al lavoro. Ma non sono a spasso.
Si vede sui volti la determinazione. La città, quando non lavora, non passeggia: corre. Non si dispera, è determinata. Al bar ci va. Un po’ timidamente, ma no, Milano non si è fatta prendere dal panico. Sì, l’impressione, camminando tra la gente, è quella di una città diversa. Più borghese. Più grigia. Più determinata. Meno Fashion Week e più fatturato. E con gravi cicatrici, che metabolizzerà solo tra molto, molto tempo. E che segnano ognuno di noi. Come l’anziano, disperato, in Piazza Udine, che cercava di capire dove si prendesse il 55 direzione cimitero di Lambrate. Lui non era nemmeno di Milano. Ma la moglie ora era là. Una moglie che non aveva nemmeno potuto salutare.
Seppellita lontano da casa. Cremata contro la propria volontà. Dispersa adesso in un luogo che lui non sa nemmeno come raggiungere. Ci sono circa diecimila persone che non riposeranno nel cimitero vicino ai propri cari. I dislocati di Bergamo, portati via dai carri dell’esercito. Ed i tanti, troppi Milanesi spostati di campo santo. Poi ci sono gli operatori sanitari. Quelli di prima linea che stanno tornando nei reparti. Quando ci riescono. A cui, però, faticano ad affittare case perché marchiati come untori. E che, comunque, vedranno sempre il mondo con occhi diversi. Non è stata semplicemente un’esperienza di confine (si pensi al tendone del San Raffaele), è stata una guerra interiore.
Quando Emergency va in un paese straniero a salvare i bambini dalla guerra compie una grande opera. Ma l’operatore riesce, in molti casi, a dare il meglio perché alla grande umanità che lo ha motivato unisce un importante distacco professionale. È umano, ma lucido. Questo diventa difficilissimo quando stai curando il tuo vicino di casa. Il padrone del negozio da cui compri le scarpe di solito. Il tuo parrucchiere. Qui non si era solo in guerra. La linea del fronte era il pianerottolo. E per quanto le pallottole abbiano un modo tutto loro di contagiare chi sta in zona di guerra, qui il virus è onnipresente. Si opera sempre sotto le bombe. Con i colpi di tosse al posto delle detonazioni. Anche i sanitari hanno, perlopiù, uno sguardo diverso.
Ce l’hanno anche i commessi. Gli anziani. Solo i bambini mantengono quell’espressione così antica e così moderna. Così autenticamente umana. Almeno quelli troppo piccoli per la mascherina. Gli altri hanno capito. Purtroppo. Se dovessi fare, quindi, una previsione di cosa vedranno gli Italiani che tra due settimane potranno tornare a Milano è questa: una città tornata indietro di cinquant’anni. Borghese, seria, determinata. E che dietro ogni sorriso su Instagram, nasconde un pugnale tra i denti. Il peggio è passato, ma ci muoviamo in cerchio. Lo ritroveremo là davanti.
Ma, ed è questo il punto più importante, non ci troverà impreparati. La cosa che brucia di più è di esserci lasciati colpire alle spalle. Non è una cosa cui la città sia abituata. E se è successo è per colpa di chi doveva vigilare. Se già prima il Milanese non si appoggiava alla Pubblica Amministrazione per risolvere i problemi, la sensazione è che ora la eviterà accuratamente. Diventando ancora più autosufficiente. Insomma, la Primavera di Milano è finita. Non siamo tornati all’inverno, ma sarà un’estate di sudore e fieno in cascina, in attesa delle gelate prossime venture. Perché, dopotutto, l’Inverno sta arrivando e non farà prigionieri. Ma, stavolta, nemmeno i Milanesi.