Salvo colpi di scena, al momento imprevedibili e comunque decisamente improbabili, ad ottobre l’on. Giorgia Meloni sarà il Capo del Governo italiano. Non sarà un cambio di maggioranza come tanti altri in passato, sarà la prima volta dall’istituzione della Repubblica che l’Italia sarà governata da una personalità formatasi nel culto del duce, cioè nella fucina del nazionalismo e dell’autoritarismo.
Con ciò non si vuole assolutamente dire che la leader di FdI sia oggi una fascista e che di per sé costituisca una minaccia per la nostra democrazia. Quello che vale per tanti della mia generazione, militanti per la causa comunista e formatisi nel culto di Stalin e di Mao Zedong, non proprio dei campioni di liberaldemocrazia, poi maturati nel corso degli anni alla pienezza delle convinzioni democratiche, deve valere e vale anche per lei. Peraltro le sue ripetute, pubbliche prese di distanza da ogni nostalgia post fascista sono inequivoche. Si dirà della fiamma non cancellata dal simbolo di FdI, che sarebbe la spia del legame mai reciso con l’esperienza fascista; ma quella è una scelta di marketing, per non farsi rubare il logo da qualche scheggia di estrema destra e per non perdere voti ‘di appartenenza’. Non ci vedo altre ragioni a mantenerla. D’altra parte quella fiamma è stata legittimamente rappresentata nel nostro Parlamento fin dai primi anni della Repubblica democratica. Soprattutto va sottolineato come lo statuto del partito dei Fratelli d’Italia e la sua concreta dialettica interna non abbiano alcun vizio antidemocratico.
È allora solo allarmismo pre-elettorale? Non ci sono rischi di deriva autoritaria col Governo Meloni? Sì che ci sono e sono legati alle dinamiche dell’intero Occidente. Proprio nei giorni scorsi le urne della mitica Svezia socialdemocratica ci hanno consegnato un’affermazione senza precedenti della locale estrema destra razzista, tra le più violente ed aggressive dell’intera Europa. Analoghe pulsioni vengono segnalate in tutta l’Europa e, alle allarmate segnalazioni, seguono poi i voti nelle urne. Non ne sono esenti il Regno Unito, la più antica e consolidata democrazia del mondo, e gli USA, il guardiano mondiale delle libertà. Lì, oltratlantico, tra due anni si profila un ritorno di Trump o di un suo epigono alla Casa Bianca. Ciò mentre già da oggi i governi di coalizione con maggioranze sempre più risicate di Francia e Germania, le potenze guida dell’UE, devono fare i conti con una inquietante presenza parlamentare di estrema destra. Potrebbe essere così anche in USA a novembre dopo le elezioni di midterm, se i repubblicani dovessero prendere la maggioranza della Camera e confermare quella del Senato di cui già dispongono. Per non dire dell’Ungheria, della Polonia e di altre nazioni dell’Est Europa, che oppongono una vistosa resistenza alla loro piena democratizzazione interna, requisito ineludibile per l’appartenenza all’Unione Europea.
È in questo contesto internazionale che Giorgia Meloni potrebbe essere ingolosita dalla prospettiva di assumere la leadership dell’Europa conservatrice e nazionalista, portando il nostro Paese su quelle posizioni. Ma cosa significherà questa scelta per noi italiani?
Nell’immediato non ci sono margini di manovra reali per poter tirarsi fuori dai vincoli economici e finanziari dell’UE, a cominciare dalla ventilata e velleitaria revisione del Pnrr. Se il nuovo governo solo provasse ad allontanarsi dal rigoroso rispetto degli impegni assunti in sede europea dal Governo Draghi e dal Parlamento italiano, i contraccolpi sarebbero immediati e devastanti per il nostro Paese. Né c’è da credere che il nuovo governo abolirà sul serio il reddito di cittadinanza. Stiamo scherzando? Con tutti i problemi sociali determinati dalla crisi energetica, dall’inflazione e dalla pandemia, volete che, tanto per andare a cercar grane, la prima cosa che farà il Governo Meloni sarà di inimicarsi centinaia di migliaia di persone che oggi vivono di esso? No, su questo terreno la Meloni procederà con estrema cautela, stiamone pur certi.
Esclusa la chance di segnare una rottura con l’esperienza del Governo Draghi sul terreno economico e finanziario, quindi su quello sociale, alla Meloni non resterà che caratterizzare la svolta sul terreno dei diritti civili, da quelli LGTBQ+ allo ius scholae, dall’immigrazione ai temi identitari della cultura tradizionalista e teo conservatrice, quali il fine vita, la famiglia, la fede religiosa. Qui, su questo terreno, ci sono rischi reali di arretramento rispetto alle conquiste libertarie degli ultimi decenni; ma la nostra società su questo terreno ha sviluppato ormai vigorosi anticorpi. Ci sarà magari una dialettica aspra nel Paese, ma una restaurazione antistorica è impensabile.
La Meloni dunque si terrà per un po’ al di qua del bivio, pronta a riprendere la strada del sovranismo populista ed antieuropeo degli anni scorsi qualora nel ‘24 i trumpiani dovessero tornare alla casa Bianca, ovvero a percorrere quella più moderata del conservatorismo parlamentare europeo.
E gli altri, e la sinistra? Sarebbe importante, a mio avviso, se pur nella scontata vittoria della destra a trazione meloniana, le opposizioni riuscissero quanto meno ad ottenere una rappresentanza tale da poter frenare eventuali propositi ultraconservatori. Non sarà facile, la legge elettorale non lascia margini di recupero. A meno che le tre minoranze non abbiano il coraggio pragmatico di sedersi ad un tavolo e di definire tra loro degli accordi di desistenza collegio per collegio, per lo meno per quelli giudicati contendibili. Potrebbero così limitare la batosta, ma c’è da dubitare che ne abbiano la volontà e la capacità. E poi, è già troppo tardi, a meno che non lo abbiano già concordato sottotraccia per tempo. Ho avuto modo occasionalmente, qualche giorno fa, di ragionare sul voto con un caro amico, già deputato per più legislature. Mi ha detto: la destra vincerà, su questo non c’è da girarci attorno, in discussione ora non c’è l’an, ma il quomodo.