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Medio Oriente, le ragioni e i torti

by Carlo Gnetti
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Premessa

Mi sia consentito introdurre il discorso in forma diretta e con una nota personale: non voglio aggiungermi alla pletora di osservatori e/o partigiani che commentano la guerra in corso in Israele e a Gaza, talvolta senza conoscerne a pieno i risvolti e gli antecedenti; intendo solo introdurre nel dibattito alcuni punti fermi e portare la mia testimonianza diretta di giornalista che è stato molteplici volte in quei luoghi, compresa Gaza, ne ha seguito le vicende per ragioni professionali e ha avuto occasione di spiegare agli studenti le origini e gli sviluppi della questione palestinese.

Dunque, procederò – in modo necessariamente schematico – ricordando quelli che ritengo aspetti fondamentali, alcuni dei quali sorprendentemente trascurati nel dibattito attuale e che sono invece indispensabili per capire ciò che sta succedendo oggi. Una premessa chiara e inequivocabile: l’attacco terrorista condotto da Hamas contro i civili israeliani va condannato senza esitazione. Dopo di che va detto che la risposta israeliana con il bombardamento di Gaza, pur comprensibile, suscita altrettanto orrore. Entrambe le azioni, a mio parere, non servono alle rispettive cause e, soprattutto, allontanano la possibilità di gettare le basi per la soluzione politica di un annoso conflitto che rischia di deflagrare coinvolgendo il mondo intero.

I fatti/1

Senza risalire alla distruzione del Tempio di Gerusalemme da parte dell’imperatore romano Tito, alla diaspora, alla storia del popolo ebraico dai tempi dell’Impero romano a oggi e alle origini del sionismo (le teorie di Theodor Herzl sul ritorno alla “terra promessa”), basti ricordare alcune date fondamentali più ravvicinate nel tempo. La prima: 14 maggio 1948, fondazione dello Stato di Israele e immediata risposta militare da parte di sei Stati arabi (Egitto, Libano, Siria, Iraq, Arabia Saudita e Giordania, allora Transgiordania) che intendono cancellarlo dalla faccia della terra. Breve retroscena. Mentre dall’inizio del secolo scorso l’immigrazione in Palestina degli ebrei, che fuggivano dalle persecuzioni e dai pogrom antisemiti in molte parti d’Europa ma soprattutto in Russia, era avvenuta in modo prevalentemente pacifico, spesso con l’acquisto in denaro di terre palestinesi, dopo la Seconda guerra mondiale lo scenario cambia totalmente: esodo massiccio di ebrei da tutta Europa verso la Palestina, fino allora protettorato inglese, e tentativo più o meno palese da parte delle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale (Inghilterra più recalcitrante) di dare un risarcimento morale e materiale al popolo ebraico perseguitato e martirizzato nei lager tedeschi. Questa specie di senso di colpa collettivo dell’Occidente, che aveva assistito per lungo tempo inerme agli orrori della Shoah, va tenuto nel debito conto per spiegare gli avvenimenti di oggi.

Dopo la disastrosa sconfitta della coalizione araba nella guerra del 1948, inizia quella che i palestinesi chiamano nakba (catastrofe), cioè la cacciata di oltre 700mila persone dalle loro case e la loro deportazione nei campi della Cisgiordania, della Giordania e del Libano. Da notare che i campi profughi palestinesi, uno degli argomenti più forti del mondo arabo contro la politica di Israele, non sono mai stati voluti dall’Egitto, sono più o meno tollerati in Giordania – il cui re Hussein nel settembre 1970 (Settembre nero) non si fece scrupolo di massacrare i palestinesi e cacciarli dal suo territorio in seguito ad alcuni attentati – e sono all’origine di fortissime tensioni in Libano: basti ricordare il massacro di Sabra e Chatila, compiuto il 18 settembre 1982 dalle Falangi libanesi e dall’Esercito del Libano del Sud con la complicità dell’esercito israeliano.

Fatto sta che questi campi profughi, le cui condizioni di vita sono estremamente precarie ma che ormai si sono trasformati in vere e proprie città prive di servizi essenziali, esistono tuttora, sono gestiti dall’Unhcr (l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, che spesso provvede anche all’istruzione dei bambini: questo per ricordare che l’Onu non è poi così inutile) e sono una fonte inesauribile di tensioni, rabbia e malcontento. Tanto quanto lo sono gli insediamenti dei coloni ebrei che da allora continuano imperturbabili a espandersi in Cisgiordania con la protezione dell’esercito, conquistando pezzetti di terra sottratti con la forza ai palestinesi, spesso arroccati sulle colline in modo da poter dominare e controllare dall’alto ogni mossa nemica.

I fatti/2

Seconda data fondamentale: 5 giugno-10 giugno 1967, guerra dei sei giorni che Israele vince con facilità irrisoria contro gli eserciti coalizzati di Egitto, Siria e Giordania. Da allora si impone la definizione di “Territori occupati”, con riferimento all’occupazione militare da parte di Israele di alcune zone appartenenti agli Stati nemici in seguito a quella guerra lampo: le alture del Golan (a tutt’oggi la zona verde al confine con la Siria è un’area iper-militarizzata e contesa); il Sinai poi restituito all’Egitto; il Libano meridionale da cui erano partiti alcuni attacchi siriani; la striscia di Gaza che era stata occupata dall’Egitto ed è poi stata affidata all’amministrazione palestinese nel 2005 superando la resistenza dei coloni israeliani che nel frattempo vi si erano insediati; e soprattutto la Cisgiordania o West Bank come la chiamano gli israeliani, cioè quella zona al di qua del fiume Giordano che prima apparteneva alla Giordania ed è tuttora sotto occupazione israeliana. Giocando sull’ambiguità della sua formulazione, Israele non ha mai voluto adempiere alle richieste della famosa Risoluzione 242 delle Nazioni Unite, che auspicava “una pace giusta e duratura… con l’applicazione di entrambi i seguenti principi: … Ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto… Fine di tutte le rivendicazioni o stati di belligeranza… rispetto per il diritto di ogni stato dell’area di vivere in pace entro confini sicuri e riconosciuti”. L’ambiguità sta in questo: ritiro dai territori occupati, come è ovvio pensare, o ritiro “da” territori occupati, cioè da una quantità imprecisata di territori occupati, come ha sempre sostenuto maliziosamente Israele?

Vale la pena citare en passant un’altra Risoluzione Onu mai rispettata, la 181 del 1947 che prevedeva l’esistenza di due Stati, Israele e Palestina, nella terra che va dal fiume Giordano al mare Mediterraneo, mentre Gerusalemme avrebbe mantenuto uno status di città aperta sotto giurisdizione dell’Onu.

A questo punto vanno ricordati alcuni eventi che si sono susseguiti in un breve lasso di tempo e che hanno avuto un peso decisivo nell’evolversi della questione palestinese. Il 31 luglio 1988 la Giordania rinuncia ad amministrare (in realtà una specie di amministrazione controllata) la West Bank; il 15 novembre dello stesso anno Yasser Arafat, presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, proclama ad Algeri l’indipendenza dello Stato di Palestina la cui amministrazione – con capitale Ramallah – verrà affidata all’Autorità nazionale palestinese dopo gli accordi di Oslo del 1993. Lo Stato di Palestina viene riconosciuto da 135 paesi, con esclusione di gran parte dei paesi occidentali, tra cui l’Italia, mentre l’Onu gli riconoscerà lo status di Osservatore Permanente. Tutto ciò non ha posto fine al controllo militare israeliano ma ha definito con maggior precisione – sebbene in modo precario – quali sono le città da ritenersi palestinesi a tutti gli effetti (Ramallah e Nablus le principali, oltre a Gerico e Nazareth) e quelle più esposte al conflitto tra residenti palestinesi e israeliani: Gerusalemme in primo luogo, dove le due entità convivono in modo conflittuale assieme ad altre minoranze, poi Hebron, con una enclave israeliana addirittura nel centro storico, e poi la città simbolo di Betlemme. Qui e in altri luoghi Israele non ha rinunciato a imporre in modo visibile e autoritario la propria presenza militare, plasticamente rappresentata dai check point sparsi per tutta la West Bank, in modo da impedire non solo la continuità territoriale della Cisgiordania, che infatti appare nelle cartine geografiche come un paese “a macchia di leopardo”, ma anche la possibilità per Cisgiordania e Striscia di Gaza di avere contatti diretti con strade o altre vie di comunicazione.

Le conseguenze

Negli ultimi trent’anni le cose non hanno fatto altro che avvitarsi su questi antecedenti. Il diritto all’esistenza dello Stato israeliano non è mai stato riconosciuto non solo dai palestinesi ma dalla maggior parte dei paesi arabi, anche se alcuni di essi intrattengono rapporti formali (e commerciali) con Israele. Prima dell’attacco del 7 ottobre di Hamas a Israele, gli accordi cosiddetti di Abramo sembravano andare in direzione di una normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni paesi del Golfo (Emirati Arabi, Arabia Saudita e Qatar), a cui si è poi aggiunto il Marocco, con la benedizione degli Stati Uniti. Sicuramente la nuova guerra ha rallentato il processo e non è escluso che questo fosse uno degli obiettivi dell’attacco di Hamas.

La dirigenza dell’Olp, che ha a lungo risieduto all’estero, e poi dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) non ha mai brillato per incorruttibilità, ascendente sulla popolazione e capacità di rappresentarne gli interessi nelle sedi internazionali. Ma bisogna anche aggiungere che Israele e gli Stati Uniti, dopo le felici parentesi di Camp David e qualche altro sporadico incontro, non hanno fatto nulla per rafforzare la loro immagine né come interlocutori credibili di un processo di pace né come amministratori, cosa che avrebbero potuto fare ad esempio agevolando la preparazione e la formazione delle forze di sicurezza palestinesi, che anzi sono state ostacolate in tutti i modi.

Nel frattempo, non solo è proseguita la costruzione di insediamenti illegali in Cisgiordania ma, sempre in nome della sicurezza di Israele, si è proceduto alla costruzione di muri invalicabili tra un luogo e l’altro della Cisgiordania a protezione della popolazione israeliana e di un tunnel terrificante che consente l’ingresso e l’uscita delle persone dalla Striscia di Gaza. Così è possibile assistere quotidianamente all’estenuante, umiliante e degradante aggiramento del muro e attraversamento del tunnel da parte di lavoratori palestinesi che si recano quotidianamente a lavorare in Israele, spesso, paradossalmente, proprio negli insediamenti costruiti dai coloni e protetti dall’esercito, dopo essere passati sotto le forche caudine delle forze di sicurezza israeliane.

Non mancano le ragioni, dunque, che spiegano la crescente radicalizzazione della popolazione palestinese, quella che vive nei campi profughi, quella che vive nelle città sotto l’occhio vigile dei militari israeliani, quella che vive a Gaza dove abitano anche centinaia di migliaia di bambini. Popolazione che da tempo ha smesso di credere in una soluzione pacifica dei suoi problemi, che ha smesso di credere nei suoi governanti corrotti e ha preferito affidarsi alle forze più radicali (che spesso svolgono anche una funzione sussidiaria di assistenza sociale e di supporto materiale), che ha smesso di credere nel ruolo di mediazione dell’Europa e delle grandi potenze, specie dopo il trasferimento dell’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme voluto da Donald Trump. E che magari – abbandonando una laicità che l’aveva contraddistinta negli scorsi decenni – ha finito per abbracciare un credo religioso che glorifica i martiri e ha una grande funzione identitaria. In pochi anni Gaza si è riempita di chador e di moschee.

Dall’altra parte abbiamo un paese, Israele, che ha sempre fondato le sue ragioni su alcuni principi che oggi iniziano a vacillare: l’identificazione tra antisionismo e antisemitismo che ha sempre usato come argomento da contrapporre alle critiche sul piano politico e morale, la legittimazione che gli dava il fatto di essere un paese democratico in uno scenario geopolitico di autocrazie e fondamentalismi religiosi. Ma a pesare soprattutto è la mancanza di una visione strategica e lungimirante sulla sorte da riservare ai palestinesi. Tale omissione si è tradotta in un’apartheid di fatto, magari non teorizzata ma sempre più intollerabile, della popolazione dei territori e in un sostanziale cedimento a chi vorrebbe liberarsi del problema alla radice spingendo sempre più ai margini o addirittura deportando, se non cancellando, l’intera popolazione palestinese. Va in questo senso l’uso dell’archeologia – alla ricerca delle ragioni storiche dell’appartenenza di Gerusalemme al popolo ebraico – per giustificare la rimozione di interi quartieri palestinesi da Gerusalemme Est.

Per di più l’argomento della democrazia ha iniziato a vacillare seriamente dopo i tentativi fatti da Netanyahu per indebolire la magistratura e la Corte di Giustizia imponendo le ragioni del potere politico e le sue personali. Senza contare l’ingresso nel suo governo di rappresentanti del fondamentalismo religioso, spesso con forti connotazioni razziste. Chiaramente il venir meno di uno dei principi basilari della democrazia, l’indipendenza del potere giudiziario, che assimilerebbe Israele alle autocrazie confinanti, aveva iniziato a preoccupare ampie fasce della popolazione israeliana, non solo tra gli oppositori politici ma anche tra i militari. Come ben ricordiamo, tutti loro sono scesi in piazza per mesi contro l’infausto progetto di Netanyahu. La rottura del monolitismo israeliano di fronte alla minaccia esterna e l’abbassamento delle difese militari su Gaza per concentrarle sugli insediamenti, sono senza dubbio tra le ragioni che spiegano la facilità con cui Hamas è penetrata in Israele per compiere i suoi eccidi.

Infine, c’è un argomento di cui occorre sempre tenere conto quando si affronta la questione palestinese: la guerra demografica. Israele è sempre stata consapevole della necessità di rafforzare la quota di popolazione ebraica rispetto al nemico che ha in casa, una parte del quale è riuscito parzialmente ad assimilare (gli arabi israeliani, il cui malcontento è sempre stato latente ed è in forte crescita), allargando le maglie dell’immigrazione agli ebrei russi e persino a quelli etiopi (Beta Israel), portati in Israele con un ponte aereo negli anni Ottanta e anche di recente (l’ultimo sbarco a Tel Aviv è avvenuto nel 2020). Da parte palestinese la propensione alla natalità non risponde solo a ragioni culturali e religiose ma ha anche all’obiettivo di far crescere continuamente il numero di futuri combattenti per la libertà e di giovani votati al martirio.

Questo lo scenario prima degli avvenimenti che hanno preso una china pericolosissima dopo l’attacco del 7 ottobre e la risposta israeliana. Sono tutti aspetti destinati a passare in secondo piano finché la parola è alle armi, ma senza affrontare i quali sarà impossibile risolvere una volta per tutte la questione palestinese.