‘Marx e i suoi scolari’. È il titolo del libro per Stilo editrice di Luciano Canfora ed Eric Hobsbawn (sua la voce ‘Marx’ dell’Oxford dictionary). La tesi è semplice: Togliatti recuperò in sostanza la linea engelsiana della via parlamentare al socialismo, non distante dal programma di Bad Godesberg della metà del ‘900 in Germania. Il tutto dentro la guerra fredda e il vincolo dei blocchi, che rendeva assurdi e impossibili gli strappi leninisti. Giustissimo a nostro avviso.
A questo ci sarebbe da aggiungere – e Canfora in parte lo fa – che dietro Togliatti c’era Gramsci. E non solo per l’egemonia e il consenso da conquistare gradualmente, ma anche per il ruolo del parlamento e addirittura del bipolarismo, a cui il partito e i suoi alleati dovevano educarsi. Come risulta dai Quaderni dal carcere, citati sempre ma non letti.
E infatti Gramsci, già negli anni ‘30, parlava proprio di capacità del partito di “addestrarsi al governo” attraverso il confronto programmatico maggioranza opposizione. Nel momento stesso in cui rivalutava la figura di Giolitti, gran riformista liberale e non già ministro della malavita secondo l’accusa molto diffusa di Salvemini. Proprio a Giolitti Togliatti dedicò infatti un grande saggio nel 1954, in cui ne elogiava le qualità di incompiuto riformatore borghese ma eminente.
Togliatti socialdemocratico dunque? Certo, benché l’ambiguità ideologica finalistica e il legame ideale con il campo sovietico restassero in lui. Ma nel rifiuto del partito e dello stato guida. La sua idea di socialismo si basava sulla costruzione e non sull’abbattimento dello stato e dell’economia borghese. Anzi, per il segretario del Pci si trattava di dar vita ad un modello di sviluppo programmatorio plurale e progressivo, con forme miste, pubbliche e private, e con un ruolo chiave dello Stato nella guida dell’economia. Proprio per realizzare e compiere l’industrializzazione mancata dalla borghesia. Un classico, questo motivo.
Tipico dello storicismo riformista e gradualista togliattiano e fortemente presente nella Questione meridionale di Gramsci in carcere. Che denunciava lo sviluppo mancato del sud imputandolo al “patto scellerato” tra agrari meridionali e industriali del nord.
Nulla di paradossale e nuovo perciò in tutto questo, al contrario di quel che scrive Antonio Carioti, recensore del libro di Canfora sul Corriere della Sera del 7 gennaio. Queste cose sono arcinote da almeno 60 anni, sia in politica che in storiografia! Grazie agli studi di Ragionieri, Spriano, Paggi, Agosti, Cortesi e persino Giorgio Bocca col suo celebre ‘Togliatti’. Canfora ha il merito di raccontarle di nuovo, precisandone i passaggi con riferimento al marxismo classico e al leninismo.
Quanto al contributo di Eric Hobsbawm tratto dall‘Oxford Dictionary, esso ci conduce attraverso le diverse revisioni del marxismo. Da quella pragmatica e riformista di Engels e poi di Bernstein, a quelle radicali di Rosa Luxemburg e di Lenin. Una parabola dove alla fine vince la revisione di Lenin – Rivoluzione contro il Capitale! – inizialmente più gradualista, poi insurrezionale nella catastrofe della Russia e in piena carneficina imperialista. Dal leninismo – scrive Hobsbawm – una volta fallita la rivoluzione in Occidente post 1917, nascerà una fortezza, guida imperiale a sostegno delle lotte nazionali e anticoloniali antioccidentali. Ma con dentro il contraccolpo del fascismi.
In questo quadro variegato e tragico si colloca anche la variante revisionista togliattiana: partito nazionale di massa che percorre una sua autonoma via nazionale al socialismo tra i due blocchi geopolitici. Via democratica nella forma e nella sostanza, niente affatto tattica e doppia come via al potere.
Ovviamente ci si chiede come mai il Pci non abbia mai governato malgrado il suo riformismo e la sua comprovata lealtà democratica. La risposta pare chiara: si trattava pur sempre di una forza a denominazione comunista, frutto anomalo e originale della rivoluzione di Ottobre del 1917, come tale ritenuta inaffidabile per i suoi legami pregressi con l’Urss, benché affievoliti. Sospetta insomma nella logica dei blocchi geo-politici. Da cui la famosa conventio ad excludendum.
Sta di fatto che, come anche Canfora mostra, il Pci fu una forza engelsiana e non rivoluzionaria, una “socialdemocrazia dinamica” secondo la definizione del 1967 del più grande teorico marxista italiano, Galvano della Volpe. Una grande forza di emancipazione civile e sociale al servizio della cittadinanza e delle classi subalterne. Che ebbe il demerito di non evolvere, anche formalmente e ufficialmente, in senso socialista democratico dopo il 1989, invece di confluire di fatto ed estinguersi alfine in un partito democratico trasversale, senza rapporto forte con la tradizione socialista.
Storia questa di una dissoluzione di una autoriforma identitaria mai intrapresa da parte degli eredi di Berlinguer, nipoti di Togliatti. Che merita una storia a parte ancora tutta da scrivere.