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Manfredi: senza trasformazione sociale qualsiasi trasformazione fisica fallisce

Le conclusioni del Sindaco al convegno di GeT su Napoli sistema complesso

by Gaetano Manfredi
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Io credo che quando si parla di città, quando si parla di realtà cittadina, e poi parlerò anche del tema della dimensione della città, non si possa prescindere dalla complessità dell’approccio, che è l’argomento della discussione di oggi. Perché separare le problematiche, separare i piani di intervento e separare anche la dimensione dell’intervento non aiuta assolutamente ad ottenere quelle trasformazioni radicali di cui i nostri territori hanno profondamente bisogno, soprattutto per seguire quelli che sono i grandi cambiamenti che viviamo nella nostra società. Oggi noi, a Napoli, abbiamo la necessità di fare un salto di qualità.

In primo luogo, c’è un aspetto che è quello dell’intersezione dei piani di intervento. Se noi facciamo un grande intervento di riqualificazione, sicuramente c’è la parte fisica della riqualificazione, ma poi c’è un tema di riqualificazione sociale di quello che è il contesto dove quell’intervento viene inserito, di sviluppo che significa sia sviluppo economico che opportunità di crescita, sia per il singolo che per quella comunità. Quindi mettere insieme la parte materiale con la parte immateriale e guardare poi anche alla dimensione dell’intervento.

Se io immagino un caso, che può essere per esempio l’Albergo dei Poveri, che di per sé è un grandissimo intervento, non posso prescindere da quello che è il tema della riqualificazione o del potenziale di riqualificazione di tutta quella zona, di tutto quel territorio, di tutto quel quartiere, ma anche delle reti di trasporto, dei servizi, di tutto quello che serve per fare in modo che quel luogo sia interconnesso con i bisogni e le nuove potenzialità che vengono messe in campo. Perciò occorre un approccio sistemico, questo è fondamentale, ed è quello che stiamo cercando di fare in città perché chiaramente fare degli interventi a piccoli pezzi non aiuta a raggiungere nessun risultato. Questo non significa che bisogna fare tutto contemporaneamente, perché spesso qualcuno mi dice che poi alla fine è difficile trovare tante risorse per poter fare tutto. Io non dico che bisogna fare tutto insieme. Però il progetto deve essere unitario, all’interno di una visione coerente. E questo credo sia un metodo indispensabile per ottenere dei risultati, perché solo così, in primo luogo, la trasformazione fisica diventa anche trasformazione sociale, e se noi non interveniamo sulla trasformazione sociale qualsiasi trasformazione fisica fallisce.

Del resto, le esperienze che sono state fatte in passato, anche interventi molto significativi, hanno fallito per la incapacità di intervenire su quelle che erano le comunità che vivevano su quel territorio, che hanno visto quell’intervento come una cosa altra, come un’azione estranea rispetto al loro futuro. E questo non solo non ha favorito la realizzazione delle opere, creando spesso anche una contrapposizione tra chi viveva in quei territori e le opere che si realizzavano, ma sicuramente non ha favorito neanche una partecipazione ai benefici che quelle opere eventualmente potevano portare. Questo è un punto molto importante. Per esempio, quando abbiamo fatto l’intervento del Polo di San Giovanni a Teduccio, io ero Rettore della Federico II, che era un intervento molto importante di qualificazione perché veniva rigenerata la più grande area industriale dismessa di Napoli Est, l’ex Sirio, uno dei temi che abbiamo seguito con Edoardo Cosenza e gli altri con cui abbiamo lavorato è stato quello di fare in modo che quel luogo diventasse un luogo motore di trasformazione di tutto il territorio, e anche che fosse considerato da chi viveva in quel territorio come un’opportunità.

Questo, sicuramente, quando si realizza un’università non è facile se intervieni in un territorio con un tasso di scolarizzazione basso e un elevato livello di disoccupazione. Devi essere in grado di toccare quelle che sono le corde, i bisogni delle persone. Quindi l’idea di avere un’università aperta dove tutti potessero entrare, non solo chi ci studiava. L’idea che ci fosse un sistema di attrazione d’impresa che in questa maniera creava anche opportunità di lavoro, sia per personale qualificato che per persone con minori qualifiche ma che comunque avevano l’opportunità di trovare lavoro. Abbiamo scelto apposta di evitare di realizzare all’interno dell’università dei servizi mensa, proprio per fare in modo che gli studenti fossero costretti, in un certo senso, ad uscire dall’università e a contaminarsi con i luoghi che c’erano intorno. Perché noi abbiamo avuto un’esperienza molto negativa, quella di Monte Sant’Angelo, dove era stato costruito un bunker con l’idea che doveva riqualificare Rione Traiano nella zona occidentale. Ma poi alla fine Rione Traiano l’hanno visto come il luogo dove dovevano andare a rubare i motorini, non dove poteva essere il loro futuro, perché era un sistema blindato.

Quindi il tema della condivisione diventa un tema fondamentale per fare in modo che il risultato possa essere un impatto positivo. E questo è un bel lavoro che abbiamo fatto all’Albergo dei Poveri, che stiamo facendo a Scampia, a Taverna del Ferro, sempre a San Giovanni, a Ponticelli con i Bipiani. E che stiamo facendo a Bagnoli, che è poi uno degli interventi di rigenerazione urbana più grandi d’Europa.

Quindi il tema della partecipazione delle comunità, di vedere non solo la trasformazione fisica dei luoghi, ma anche la trasformazione dal punto di vista delle opportunità, delle comunità, della società. Le azioni di formazione professionale, di creazione di attrazione di imprese, di creazione di posti di lavoro, di reale trasformazione, di interazione con il sistema scolastico che rappresenta una leva molto importante, perché è molto radicata sul territorio, sono requisiti fondamentali per fare in modo che la rigenerazione urbana non sia una rigenerazione sulla carta, ma sia una rigenerazione reale per le persone che vivono in quei territori.

Poi c’è un altro tema che per me è molto significativo, un’esperienza che abbiamo vissuto in quest’ultimo periodo ma anche in passato, il tema della scala dell’intervento. Quando guardiamo a una trasformazione di un territorio, non possiamo prescindere da un sistema molto più ampio che a volte va al di fuori della città stessa. Perché l’impatto che ha e le relative tipologie di intervento hanno una scala territoriale molto più ampia rispetto alla dimensione stessa della città, anche per una grande città come Napoli. Se non viene guardata la dimensione metropolitana, e in alcuni casi la dimensione regionale o addirittura sovraregionale, alcuni tipi di intervento non hanno quell’efficacia che noi immaginiamo che possano avere e questo è un aspetto molto importante. E’ importante sul tema, per esempio, della definizione delle reti di trasporto, che chiaramente debbono avere una dimensione assolutamente sovracomunale. Uno dei grandi problemi della nostra città non è tanto la mobilità all’interno della città, ma la difficoltà di mobilità dall’area metropolitana verso la città e dalla città verso l’area metropolitana. E’ quella che dal punto di vista del volume di traffico è la più grande e quella su cui c’è più criticità di risposta. Quindi il tema della scala diventa un aspetto estremamente importante.

Ma questa dimensione della città in alcuni casi, per alcune tipologie di intervento, diventa ancora più ampia se immaginiamo tutto il tema del collegamento da un punto di vista anche internazionale. Napoli è una grande città sul Mediterraneo, alcune tipologie di iniziative non possono essere guardate in una dimensione strettamente locale o strettamente nazionale, perché solamente se le inquadriamo in una dimensione internazionale riescono ad avere quel respiro che ci dà una molla di cambiamento veramente significativa.

Ritorno al caso di San Giovanni, ma un esempio analogo lo avremo adesso all’Albergo dei Poveri. Uno dei grandi pivot della trasformazione è stata l’Academy che abbiamo fatto con Apple, ed io ho voluto fortemente cogliere quest’opportunità, perché ha significato non solo portare un grande player mondiale che apriva una finestra rispetto alle dinamiche e ai cambiamenti tecnologici in corso in tutto il mondo, ma ha significato anche portare centinaia e centinaia di studenti stranieri. Portarli in un luogo con difficoltà e marginalità, offrendo la possibilità a chi vive in quei territori di aprire appunto una finestra su una realtà che altrimenti non avrebbe mai intercettato, e a chi viene da fuori di guardare una fetta della società che spesso viene non dico poco conosciuta, ma in alcuni casi addirittura non vista, scartata. Questa scelta, tra varie opportunità, in accordo con il team venuto dagli Stati Uniti, è stata fatta perché era quella che, diciamo, sembrava la più stimolante in una logica postmoderna: realizzare alta tecnologia in un luogo da rigenerare al centro di una città. Molti più stimoli, molte più opportunità, molte più capacità di leggere anche le contraddizioni delle società contemporanee a cui in fondo le tecnologie devono anche essere capaci di dare una risposta.

La visione che è una visione molto più integrata, molto più ampia dal punto di vista geografico e temporale, e molto più complessa dal punto di vista dell’analisi dei bisogni e delle opportunità delle persone, rappresenta oggi l’unica strada per poter fare realmente degli interventi che possono cambiare il futuro dei territori o il futuro delle persone. Gli strumenti che noi oggi abbiamo sono degli strumenti che invece sono spesso legati ad approcci un po’ superati, perché vi è una netta distinzione tra gli interventi di rigenerazione fisica dei territori rispetto a quelli che sono gli strumenti di rigenerazione sociale, lavorativa e economica dei territori stessi. Mentre oggi è necessario un approccio di tipo integrato. Quando è stato costruito il PNRR io ero nel team, ero ministro all’epoca, che ha negoziato il PNRR a Bruxelles, e l’impostazione che fu data, ovviamente l’obiettivo era quello della riduzione dei divari, fu quella di una grande matrice: le missioni verticali – le sei famose missioni che sono stabilite nel PNRR, digitale, innovazione, educazione, ambiente, lavoro, grandi infrastrutture – e poi delle righe. Quindi, queste grandi colonne e delle righe che dovevano essere in un certo senso interpretate, costruite dai territori, dalle amministrazioni che dovevano mettere insieme le varie visioni, focalizzandole su dei luoghi. Una cosa teoricamente molto importante, perché poi quello che si dovrebbe fare è molto difficile da realizzare, soprattutto perché spesso i vari progetti vengono seguiti da realtà diverse, direzioni diverse, ministeri diversi, e quindi c’è un grande tema di integrazione delle politiche, che è una delle grandi sfide che noi abbiamo davanti.

Problemi complessi a cui bisogna rispondere con soluzioni complesse. E’ impossibile semplificare dei problemi complessi, le semplificazioni ci portano a soluzioni sbagliate. Per fare le reali trasformazioni ci vuole radicalità, perché piccole cose non cambiano le realtà. Ci vuole grande visione di sistema, quindi un approccio sistemico che affronti il tema della complessità, e soprattutto ci vuole grande partecipazione delle persone. Senza una condivisione da parte di coloro che devono essere i protagonisti di queste trasformazioni, difficilmente queste trasformazioni raggiungono i risultati che noi ci prefiggiamo. E questo è un tema molto importante con cui la politica si deve confrontare: senza partecipazione, che poi è la vera natura della democrazia, non c’è neanche cambiamento. Questo credo sia un aspetto molto importante sul quale tutti noi dobbiamo fare una riflessione profonda.