“Tutti decantiamo Milano, ma non è la prima volta nella storia d’Italia che Milano è un riferimento nazionale. A differenza di un tempo, però, oggi questa città attrae, ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. Giuseppe Provenzano, ministro per il Sud e la Coesione territoriale. Un pensiero profondo pronunciato ieri tra uno stupito Fontana, presidente della Regione Lombardia ed un perplesso Toti, omologo Ligure. Per commentare partiamo dalle cose importanti. Vorrei scrivere a mamma che, dopotutto, sto bene. Sì, Milano mi ha attratto. Ma mi restituirà in tempo per le vacanze di Natale come tutti gli anni.
Nemmeno quest’anno i Vopos locali, chiamati nella lingua gutturale e oscura degli indigeni “Ghisa” (lo sentite che parola fredda, impersonale e nebbiosa?), hanno deciso di arrestarmi per aver tentato la fuga. Questo vale anche per i miei vicini di casa Siciliani e per quelli Bengalesi dall’altra parte del piano. Sono certo che anche gli amici di Napoli che abitano di sopra scenderanno regolarmente. Ed ora che lo sto scrivendo, mi sovviene un dubbio: non è che, magari, Milano non è il buco nero cui pensa il Ministro? E poi, scusatemi, ma cosa vorrebbe dire restituire? Dopo quanti anni la città ci deve esiliare, per farci tornare a casa? Una casa che abbiamo, lo ricordo, lasciato volontariamente?
A me pare sia stata davvero un’uscita incongrua. Spero il Ministro e voi lettori, mi perdonerete il giudizio netto. Un’uscita vittimistica, che scarica dei problemi veri e reali, come certifica lo Svimez, su una realtà che, dopotutto, non c’entra nulla. I due milioni che in 20 anni hanno lasciato il Meridione non sono stati rubati da fatine malevole con la faccia della Ferragni e, nonostante la mistica da Casa Surace, magari proprio così male qua non stanno. Non è in atto un genocidio, condotto con l’economia al posto delle baionette. È l’inevitabile conclusione di anni di politiche sbagliate. In cui Milano ha pesato, vuoto per pieno, quasi niente. Ma soprattutto è un’uscita che ferisce.
Ferisce le migliaia di figlie e figli del Sud che sono qui a studiare, lavorare e fare carriera. Perché dà l’idea che gli sforzi, le difficoltà e la battaglia quotidiana non siano loro. Non loro l’orgoglio dei risultati conquistati. Suggerisce che non gli appartengano i meriti, le conquiste, le vittorie. E perché no, le sconfitte. Che tutto, ma proprio tutto, sia del Sud. E che loro siano solo pedine di una grande scacchiera. Momentaneamente prestati a Milano, ma in realtà di proprietà del paese natio. Che le radici, pur importanti, debbano fare pregio sulle gambe. Tutto questo, non c’è dubbio, vellicherà gli istinti più bassi di qualcuno rimasto a casa, ma umilia chi ora vive il sogno Meneghino. Milanesi o meno che siano.
In ultimo, una considerazione: se l’obiettivo è essere uniti abbattendo i giganti, cosicché quelli di media altezza possano guardare il tramonto, ho una brutta notizia per tutti. Non funziona. O meglio, funzionare funziona. Ma molto meno che sforzarsi di crescere. Se anche ridimensionassimo Milano, non avremmo la rinascita Meridionale. Probabilmente otterremmo solo più povertà per tutti. E questo vale anche se qualcuno provasse a “redistribuire” la produttività Meneghina. Sono tutti esperimenti sociali già provati. I cui risultati potete vedere a Taranto, se avete bisogno di esempi pratici. Quindi, qualsiasi soluzione si voglia trovare, io intanto rassicuro mamma: non sono finito in un buco nero, sono libero di tornare quando voglio e Milano, dopotutto, non è nemmeno così male come posto per viverci.