Il mare ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo delle società umane ma non è mai stato considerato come una componente del proprio habitat. L’uomo è un animale terrestre, quindi con caratteristiche anatomiche e fisiologiche che rendono molto complessa la sopravvivenza in acqua. Inoltre, si è evoluto in un ambiente in cui l’acquisizione della posizione eretta, l’uso delle mani, la percezione visiva, le tecniche, anche collettive, di cattura del cibo e molti altri tratti particolarmente vantaggiosi sulla terra ferma, non costituivano un mezzo per superare i vincoli imposti dal vivere nell’acqua e competere con gli organismi adattati a quell’ambiente. Per questi motivi il mare è sempre stato visto dall’uomo come uno spazio esterno al suo ambiente. Anche i due principali usi del mare, la navigazione e lo sfruttamento delle sue risorse non hanno incrinato quella sorta di estraneità che si manifestava anche nel timore con cui l’uomo si è sempre avvicinato al mare. La navigazione era di fatto un modo per trasferirsi da una terra ferma ad un’altra, mentre per gli altri utilizzi, fonte di cibo o discarica, l’uomo ha sempre visto il mare come un pozzo infinito da cui prendere senza problemi ed in cui sversare senza preoccupazioni. Anche quando il mare è utilizzato come fonte di svago il rapporto è occasionale e limitato nel tempo. E le isole, a meno che non fossero tanto grandi da non essere differenti dalla terraferma, da quando non si prestavano più a fungere da rifugio, venivano progressivamente abbandonate.
Ora però potremmo trovarci alla vigilia di un cambiamento significativo sia perché i meccanismi economici dell’attuale società richiedono una continua espansione di risorse, di spazi, di prodotti, sia perché nuovi materiali e nuove tecnologie consentono molto meglio di prima di superare i limiti biologici dell’uomo nell’esplorare e fruire del mare. Ambedue le spinte hanno posto le basi per l’elaborazione di una strategia di lungo periodo che viene spesso indicata come crescita blu o economia blue, in inglese, Blue growth (BG) o Blue economy (BE). La BE ha la potenzialità di tutti i settori che sono ancora lontani dal raggiungere la saturazione e, per molti versi, sta acquistando sempre più un ruolo di integratore necessario anche dell’economia consolidata per numerose motivi.
Limitandosi alla sola Italia, un quadro aggiornato sull’incidenza dell’economia legata al mare, che di solito viene divisa nella componente marina, ad es. la pesca, e marittima, ad es. la cantieristica navale, è quello fornito dal rapporto dell’Union Camere, che da qualche anno dedica al tema un rapporto annuale.
I dati più significativi evidenziati dal rapporto, ottobre 2017, sono che: 1. ci sono quasi 200 mila imprese basate sull’economia del mare, una quota corrispondente al 3,1% del totale delle imprese italiane; 2. la forza imprenditoriale del settore cresce rispetto al resto dell’economia, con un tasso negli ultimi cinque anni pari a circa l’8% a fronte di una flessione di quasi un punto percentuale delle altre attività economiche; 3. il 10% delle imprese della BE sono capitanate da imprenditori con meno di 35 anni d’età, con un 20% di sesso femminile ed un 6% di stranieri. Si tratta quindi di un settore più vitale di altri in un paese per il quale il mare è sempre stato elemento determinante della sua storia e con una notevolissima estensione costiera.
Le aspettative sulla BE sono tali che quasi tutte le organizzazioni intergovernative (ad es. L’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo) o interstatali (ad es. l’Unione Europea) le hanno dedicato numerosissimi studi, documenti, direttive. Quali sono i settori che vengono inclusi nella BE e quali sono i possibili problemi perché possa dispiegarsi secondo le attese?
Per quanto i settori possano essere raggruppati o suddivisi secondo diversi criteri (in una comunicazione al parlamento europeo se ne identificavano 18) probabilmente quelli principali sono legati all’alimentazione (pesca, acquacoltura, nutraceutica), al trasporto (cantieristica, strumenti per l’ottimizzazione della navigazione e portualità), al turismo (edilizia, protezione ambientale, promozione ed allargamento dell’offerta, mobilità che in qualche modo si intreccia con il trasporto), risorse minerarie (petrolio, gas, metalli, terre rare, etc.), gestione e recupero ambientale (mitigazione o rimedio degli effetti dell’impatto antropico sull’ambiente marino con aspetti che coinvolgono anche la protezione della salute e la prevenzione delle patologie), le biotecnologie (con potenzialità da esplorare per la biomedicina, l’esplorazione di nuovi materiali e soluzioni costruttive, il biorimedio) ed infine le infrastrutture tecnologiche (dai sistemi osservativi tipo i satelliti o i sensori autonomi fino ai gasdotti o ai sistemi di esplorazione ed estrazione in ambienti di mare profondo).
Si tratta come si vede di uno spettro molto ampio e con potenzialità di imprese ad alto valore aggiunto perché molto fondate sullo sviluppo della conoscenza. Persino il turismo, che attualmente poggia molto sull’offerta del sito e della qualità dell’accoglienza, può giovarsi di nuove tecnologie sia informatiche, per la promozione dell’offerta e l’ottimizzazione dei flussi, che dell’invenzione di sistemi che riducano i limiti ‘biologici’ dell’uomo nel contatto diretto col mare e gli consentano di entrarci in contatto (si pensi ai piccoli sommergibili o alle attrezzature sempre più amichevoli per il diving).
Quali sono i possibili problemi invece in un quadro tutto sommato roseo?
Sono di due tipi e non sono specifici del mare, ma si presentano in molta evidenza per il mare proprio per il relativo ritardo con cui lo si è incluso molto più direttamente nelle strategie di sviluppo economico.
Il primo è legato proprio alla molteplicità degli usi programmati e quindi delle aspettative. Questi usi sono spesso in conflitto tra di loro. Un impianto di acquacoltura mal si concilia con un villaggio turistico, ed una rete di piattaforme di estrazione minerarie possono diventare un pericolo per la navigazione. Questi sono conflitti del tutto interni al sistema e sono probabilmente meno rilevanti rispetto a quelli di più lungo periodo di cui già oggi viviamo le conseguenze, vale a dire la sovrapesca (overfishing) con la drammatica riduzione degli stock, la distruzione degli habitat o la riduzione della biodiversità e il sovra sfruttamento delle risorse in genere.
Esiste un approccio concettuale che gli Stati, anche sotto la spinta delle organizzazioni internazionali, stanno cercando di sviluppare ovvero la pianificazione dello spazio marittimo o Marine Spatial Planning. Esiste una recente direttiva europea che pur non potendo, e forse non volendo, entrare nel merito delle singole situazioni, richiede che gli stati membri si dotino di questo strumento per operare delle scelte nell’uso dello spazio marino. La possibilità che un approccio del genere si concretizzi e prevenga i problemi dipende fortemente dalla capacità di governo di entità super partes, perché è evidente che il mercato da solo non riesce a regolare questi conflitti. Alla base c’è il fatto che la BE si fonda sull’uso di un bene comune. In questo caso la teoria economica parla di fallimento del mercato. Un bene comune è una risorsa che in condizioni normali non può diventare proprietà di un singolo operatore, questo anche quando viene ritenuta ‘proprietà’ di un singolo stato come nel caso delle acque territoriali o delle zone di interesse economico esclusivo. Componenti essenziali dell’ambiente che permette all’uomo di esistere, come l’atmosfera, sono beni comuni e tutti percepiamo che questa loro natura, può avvantaggiare anche per periodi lunghi alcuni operatori ma, alla fine, senza una capacità di governo basata anche sulla conoscenza approfondita dei processi naturali, li trasforma in fattori di rischio per tutti. Nel caso dell’atmosfera basterebbero gli esempi dei gas serra o delle polveri sottili la cui emissione è stata sicuramente accoppiata a dei vantaggi anche molto estesi ma che ora costituisce un problema ancora più esteso e di non facile soluzione.
Un ultimo aspetto, che è al tempo stesso un’opportunità ed un elemento di rischio, è la complessità delle infrastrutture necessarie allo sfruttamento del mare. L’opportunità è ovvia e non a caso la tecnologia è considerata un settore di punta della BE. Il rischio è legato al fatto che tecnologie molto avanzate richiedono investimenti che solo pochi operatori sono in grado di fare con la possibilità che l’accesso alle risorse debba poi scontare il prezzo imposto da regimi oligopolistici o monopolistici. Ed anche di queste tendenze esistono numerosi esempi in settori molto diversi che quelli della BE.
In questo quadro, due sono le iniziative programmatiche che hanno una scala di rilievo.
La prima è di livello europeo, è stata molto stimolata e voluta dall’Italia e prende il nome di iniziativa Bluemed, che dovrebbe favorire un uso sostenibile e concordato tra tutti gli stati che insistono sul bacino mediterraneo o sono storicamente legati ad esso. L’iniziativa Bluemed ha come punto centrale il legame tra lo sfruttamento e la conoscenza per realizzare attività basate sulla conoscenza del sistema che si intende utilizzare.
L’altra, di carattere nazionale, è la recente costituzione del Cluster BIG che è un Cluster Tecnologico Nazionale per la Blue Italian Growth. Questo dovrebbe rendere possibile un processo in cui l’Italia è mediamente indietro rispetto ad altri paesi, ovvero il dialogo e lo scambio tra la ricerca, l’impresa e i centri decisionali che tengono conto di tutti i portatori di interessi (i famosi Stakeholder).
Queste iniziative, due tra le tante, costituiscono due notevoli opportunità non solo per le imprese ma per un serio approfondimento di problemi che coinvolgono i rapporti tra le società, quelli all’interno di esse e quelli tra uomo e natura, dove questi ultimi non vanno visti come un problema legato ad una presunta superiore eticità della specie ma come un vincolo ai percorsi possibili, in modo che siano compatibili con la sopravvivenza della specie.
Prossimamente approfondiremo più in dettaglio alcuni della settori della BE, soprattutto nell’ottica delle potenzialità che si offrono per il territorio.
Maurizio Ribera d’Alcalà
Stazione Zoologica Anton Dohrn