Il margine è davvero risicato: al ballottaggio delle elezioni presidenziali in Brasile, il 30 ottobre scorso, Luiz Inácio Lula da Silva (Lula per tutti) candidato del Partito dei lavoratori (sinistra) ha vinto ed è stato eletto Presidente del Brasile con il 50,9 per cento dei voti.
Jair Bolsonaro, il presidente uscente di estrema destra, ha ottenuto il 49,1 delle preferenze e soltanto martedì, dopo quasi due giorni di silenzio dalla fine delle elezioni, ne ha commentato l’esito in un discorso pubblico fatto al Palácio da Alvorada, la residenza presidenziale. Bolsonaro ha parlato soltanto due minuti, senza nominare Lula né congratularsi con lui, senza quindi fare nessuna concessione formale alla sua vittoria. Ha però autorizzato il suo Capo di Gabinetto (Ciro Nogueira, che in Brasile ha carica di ministro) ad avviare il trasferimento dei poteri che si concretizzerà come da dettato costituzionale il 1° gennaio 2023. Molti analisti internazionali lo hanno interpretato come il segno che non intenderà probabilmente contestare il risultato delle elezioni.
Il discorso è stato essenzialmente un ringraziamento per «i 58 milioni di brasiliani che hanno votato per me», nel quale ha dichiarato di aver sempre rispettato la democrazia brasiliana e di essere intenzionato a rispettarne la Costituzione. Ma è facile prevedere che i prossimi due mesi saranno tesi e complicati. Come lo è stata la campagna elettorale, turbolenta come non mai e segnata da violente manifestazioni che continuano ancora adesso. Ci riferiamo in particolare ai camionisti, una delle categorie di lavoratori che hanno maggiormente sostenuto Bolsonaro durante la campagna elettorale, che stanno bloccando moltissime strade in tutto il paese, compromettendo di fatto la catena di approvvigionamento alimentare del paese soprattutto negli stati del sud.
Nel suo discorso, Bolsonaro ha dichiarato che «le manifestazioni sono le benvenute». Se non siamo alla situazione creata da Trump all’indomani della vittoria di Biden nel 2020, quando i suoi sostenitori assaltarono il Campidoglio per evitarne la decretazione, poco ci manca. Vedremo.
Con la vittoria elettorale di Lula il Brasile si inserisce a pieno titolo nella svolta a sinistra che sta caratterizzando la storia recente dell’America Latina. Messico, Cile, Perù, Honduras, Nicaragua, Bolivia e Argentina hanno già hanno una guida di sinistra e anche la Colombia a giugno ha voltato le spalle alla destra eleggendo il suo primo presidente progressista, il senatore Gustavo Petro. Oltre che dalla crisi economica e dell’allargarsi del divario sociale, è facile immaginare che questa svolta progressista sia stata influenzata dalla pessima gestione assicurata dalle destre governative dell’emergenza Covid, che in America Latina ha fatto sfracelli. Come del resto ha fatto Trump negli Stati Uniti, che si sono salvati dal baratro solo perché sono un paese strutturato ed una democrazia molto solida, nonostante tutto. Solo la storia ci dirà quali siano stati realmente gli effetti devastanti delle politiche populiste nelle democrazie fragili e ballerine dell’America Latina.
Il compito che aspetta Lula, che si appresta a guidare il Brasile per la terza volta dopo i due precedenti mandati presidenziali dal 2003 al 2010, appare questa volta davvero impervio. Il presidente ha ormai 77 anni ed il periodo passato in prigione (ricordiamo che fu condannato a dodici anni di galera per corruzione, accusa poi annullata nel 2021 ad opera di un giudice della Corte Suprema) lo ha certamente fiaccato. La stessa congiuntura economica internazionale, favorevole nel primo decennio del duemila e che di fatto finanziò con il boom delle materie prime l’uscita dalla povertà di trenta milioni di brasiliani, appare molto lontana. Così come appare difficile che i leader progressisti dell’America Latina, quanto mai eterogenei per peculiarità politica e ideologica, possano efficacemente collaborare fra loro e fare fronte comune per la lotta alle diseguaglianze.
Però, per quanto acciaccato e ferito, è ancora vivo e pare che venderà cara la pelle. Nel discorso pronunciato a São Paulo subito dopo la vittoria, Lula lo ha detto chiaramente: “Abbiamo il dovere di garantire che ogni brasiliano possa fare colazione, pranzare e cenare ogni giorno. Questo sarà ancora una volta l’impegno numero uno del mio governo”. Ha anche aggiunto che governerà per tutti i 215 milioni di brasiliani, non solo per quelli che l’hanno votato: “Non ci sono due paesi. Siamo un Brasile solo, uno stato, una grande nazione”. Noi ci auguriamo che Lula possa mettere ai primi posti anche la tutela della Foresta Amazzonica, bene di tutto il pianeta Terra.