Piuttosto mesto questo autunno che nelle illusorie frasi roboanti veniva annunciato come caldo. Di caldo purtroppo c’è solo il fuoco delle armi che bruciano corpi di ragazzi impiegati nelle guerre e, peggio ancora, delle popolazioni civili. Come avvenuto in Israele in ottobre e ora – in proporzioni ancora più devastanti – a Gaza. Per non dire della carneficina tra Russia e Ucraina.
Anche qui da noi poi il clima sembra caldo, ma è una falsa illusione. Quello cui assistiamo è solo la pantomima di uno scontro politico. Nessuno possiede l’autorevolezza per conferirgli un significato davvero solenne.
Si, ci sono i progetti della premier. Ora quello della riforma costituzionale che un po’ prova a mascherare che il motore del governo proprio non va. E lo fa per giunta con una riforma pasticciata e strampalata.
Poi ci sono gli strilli afoni di opposizioni che non sanno fare politica perché questa è – detta papale papale – la questione. Le manifestazioni hanno un senso quando esprimono la trama sociale di un serio lavoro precedente, obiettivi su cui maturano lotte, conflitti, protagonismo di massa. Un tempo cambiavano il segno di una legge finanziaria, trovavano connessioni egemoniche con parti ampie del Paese, perfino qualche volta facevano cadere governi. Che peso può avere portare confusamente se stessi – e per qualche mezz’ora qualche alleato improbabile e riottoso – in piazza al solo scopo di autorappresentarsi?
Perfino lo sciopero di Landini e Bombardieri (meglio di niente, intendiamoci) è però privo di forza reale. Ne è il segno l’obiezione dell’Autorità di Garanzia. Ma è mai possibile? Vi immaginate un tempo una cosa del genere di fronte ai duecentomila metalmeccanici che arrivavano a Roma, strappando la chiusura del contratto e perfino la caduta del governo di turno? Avevano intorno il consenso di un intero Paese, chi avrebbe mai osato metterne in discussione con tecnicismi il diritto a scioperare? Se un ministro osteggia e l’Autorità di Garanzia si pronuncia contro è perché sentono che il consenso profondo intorno a queste vertenze è fragile. Su questo bisognerebbe interrogarsi con urgenza. Intanto che si reagisce ai divieti con la mobilitazione più ampia e convinta possibile.
Mentre una parte del Paese invece si balocca sulle intemerate televisive di un Di Battista o di un Santoro, e perfino di un confuso e redivivo Grillo. C’è a dire il vero chi, con intelligenza, invoca il ruolo politico e di organismi internazionali per ricostruire un ordine mondiale meno cruento e squilibrato. Ma dove li trovi i soggetti per questa funzione diplomatica e politica? Funzione sempre più delicata in cui conflitti su interessi più attuali si intrecciano ormai a storici e irriducibili contrasti di tipo cultural religioso.
La verità è che in questi anni si è sottovalutata la grande sconfitta del movimento operaio storico e della sua funzione di regolazione sociale. La necessità di prenderne atto e ripartire esplorando la società e il mondo del lavoro odierni per rintracciare lì nuovi soggetti e conflitti. Si è voluto ignorare la grande mutazione di economia e composizione delle classi. L’affiorare dei segni di una rivolta protezionista e nazionalista che traeva dall’intreccio tra crisi economica, questione migranti e terrorismo pan islamista, la base di un consenso di massa reazionario.
Per non dire della indifferenza, e la subalternità perfino, alla chiusura oligarchica di organismi sovranazionali – dall’ONU alla Unione Europea – straordinaria utopia di un governo democratico mondiale invece ridotti a simulacri impotenti o peggio ancora a custodi di ideologie di monetarismo finanziario antisociale.
Sono stati ignorati su tutto questo i disperati campanelli di allarme di gente come Tronti e Cacciari qui da noi e di altri analisti e studiosi internazionali. Io stesso – nel mio piccolissimo – parlando per l’ultima volta a un congresso di partito richiamai questi temi aspri e mi domandai – e domandai a quel congresso – dove le vedesse mai le rivoluzioni annunciate nel contemporaneo trionfalistico e acclamato discorso del neosindaco De Magistris appena eletto a Napoli. Vedere ora quel leader, allora erroneamente acclamato, veleggiare in sondaggi inchiodati tra l’uno e l’uno e mezzo per cento, mentre il Paese è in mano alle destre e il mondo è al collasso, non mi ripaga per nulla della indifferenza con cui allora vennero accolte le mie preoccupazioni.
Avrei ben volentieri preferito aver torto su tutto. Quel mio intervento venato di pessimismo e tristezza così si concludeva: “Tornano in forme inedite gli incubi che conobbero i nostri genitori da ragazzi, quegli anni ‘20 e ‘30 che nel cuore dell’Europa e da noi portarono ad efferati regimi autoritari e poi alla guerra. Per questo abbiamo l’obbligo di alzare l’asticella della comprensione delle cose e senza farci impallinare noi stessi dal clima di populismo strisciante che si presenta con il volto delle rivolte antisistema, che se dovesse alfine affermarsi non credo aprirebbe gli scenari rivoluzionari che vede De Magistris ma cancellerebbe la politica, la sinistra e con esse purtroppo anche la democrazia”.
Non so a voi ma a me pare che ormai a questo ci siamo vicini. Cosa deve ancora succedere (sia tra i presunti riformisti sia tra i presunti radicali) per abbandonare il politicismo imperante e rovesciare completamente registro?