No, ancorché tante tra loro esibivano le Zeta dei carri armati russi, quelle 80/100mila persone giubilanti lo scorso venerdì 18 marzo nello stadio Luzhniki di Mosca non erano truppe cammellate precettate per la messa in scena mediatica. Il consenso del popolo russo verso Putin è reale e ben consistente. Quella gente era vera, pur se certamente quella non era una manifestazione spontanea. Il capo del Cremlino aveva organizzato nei dettagli l’evento per lanciare messaggi inequivoci in diverse direzioni.
Verso l’Occidente, tanto per cominciare. Lo spettacolo musicale, gli artisti, i campioni dello sport al suo fianco, proprio come nelle campagne elettorali americane ed europee. E poi i colori vivaci, i bei volti giovanili, i loro sorrisi gioiosi sottolineati dalle riprese tv, la standing ovation alla sua apparizione sul palco. Tutto stava a dire agli occidentali: guardateci, noi siamo come voi, condividiamo la vostra stessa cultura, non credete quando ci dipingono come culturalmente retrogradi, cupi ed aggressivi.
Qualche notista euroccidentale ha paragonato quello stadio alle piazze dei comizi di Hitler. Errato, quelle del Führer erano piazze irregimentate, disciplinate, in divisa, un’altra dimensione quella dello stadio di Mosca. Con esso Putin ha voluto dirci che lui non è Pu-tler e che i nazisti stanno dall’altra parte, sono ucraini.
Un secondo messaggio, subliminale come il primo, l’autocrate lo ha mandato a quanti, nella classe dirigente russa e nella sua stessa cerchia, stessero pensando ad un putsch volto a rimuoverlo dal potere. Non azzardatevi, il popolo è con me, nessuno vi salverebbe dai plotoni di esecuzione. E nessuno in occidente osi provare a corrompere la mia classe dirigente. Una intimidazione, ma anche il segno di una qualche difficoltà. Non si minacciano i propri collaboratori facendo appello al popolo se ci si fida di loro.
Poi i messaggi a lettura più aperta, come quello al popolo russo, ai padri, alle madri e alle mogli dei diecimila e più giovani che hanno già perso la vita in Ucraina o che rischiano di perderla. Non ha citato esplicitamente i caduti in guerra, non ha voluto e non ha potuto parlarne; avrebbe smentito la sua stessa propaganda trionfalistica, ma l’allusione è stata ben leggibile. Siate forti, ha esortato, come forte fu il nostro popolo nel ’41. Oggi come allora i nostri ragazzi stanno morendo per salvare dal nazismo noi e i nostri fratelli di Ucraina. E qui la citazione del Vangelo secondo Giovanni: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Della serie: ‘Dio è con noi’… Gott mit uns. Kirill benedicente.
Sempre rivolto al popolo russo un secondo messaggio, stavolta rassicurante, a smentire le voci sull’impasse dell’operazione militare speciale sul suolo ucraino. Tutto procede secondo programma, ha gridato: “Sappiamo cosa dobbiamo fare, come farlo, con quali mezzi farlo. Sicuramente attueremo tutti i nostri piani”.
Infine, il messaggio esplicito alle cancellerie del mondo ed all’ONU, la cui assemblea generale ha ‘deplorato’ l’invasione dell’Ucraina: noi non abbiamo violato unilateralmente la sovranità dell’Ucraina; siamo piuttosto intervenuti per restaurare il legittimo governo democratico di Janukovic, rovesciato da un colpo di stato nel 2014, e a protezione della componente russofona della popolazione ucraina, sottoposta da anni ad atroci angherie finalizzate alla pulizia etnica antirussa. Stiamo combattendo per fermare un genocidio, ha affermato Putin, il governo golpista di Kiev ha violato gli accordi di Minsk del ’14, stiamo noi dalla parte del diritto internazionale.
La chiarezza della comunicazione è una virtù che non manca all’autocrate del Cremlino e chiari sono stati i suoi messaggi, fondati su una narrazione logica. Logica ma surreale, manca l’adaequatio intellectus ac rei. Quel racconto non fa breccia nei paesi che godono di una stampa libera, con giornalisti che rischiano la vita ogni ora per vedere da vicino e raccontare i fatti. Se alcuni di loro la vita l’hanno già sacrificata alla verità. A noi euroccidentali il racconto putiniano appare logico a mo’ di paranoia. Come considerare altrimenti uno che nega la libera informazione nel suo paese, arresta e fa assassinare i giornalisti, distrugge pietre, animali e persone con bombardamenti su scuole, ospedali, centri commerciali e residenze private, e che incredibilmente definisce nazista il Paese vittima della sua efferatezza, in cui vige lo stato di diritto ed il cui leader, eletto in libere elezioni dal 73% dei votanti, è ebreo, con molti parenti ‘purificati’ nei forni della Shoah, nipote di un soldato che combatté contro i nazisti nell’esercito sovietico!
Eppure quella narrazione appare più che convincente al popolo russo, specie a quello delle sterminate steppe che dagli Urali arrivano a Vladivostok sul Pacifico. A questo popolo non arrivano le immagini della carneficina, solo notizie rassicuranti e quelle gioiose dello stadio Luzhniki in festa a otto anni esatti dall’annessione illegale della Crimea, 18 marzo 2014, quando gli abitanti della penisola fecero ‘la scelta giusta, misero un freno al nazionalismo e al nazismo, che continua a esserci nel Donbass’, ipse dixit.
Tutto ben disposto e ben organizzato dunque per l’anniversario della ‘liberazione ‘ della Crimea, ma non tutto è andato per il verso giusto. Mentre parlava il leader, le immagini della diretta televisiva sono sfumate, lui e le sue parole sono scomparsi dai teleschermi ed al loro posto sono ricomparsi i cantanti. Come mai? Solo un piccolo incidente tecnico? O qualcuno ha lanciato un messaggio di ritorno al leader?