Quarta parte della relazione del prof. Pietro Spirito al convegno “Le infrastrutture di trasporto: inventare il futuro”, organizzato a Roma dalla Fondazione Astrid.
4. L’integrazione e la specializzazione necessaria dei porti meridionali
Prevale più la concorrenza tra gli scali nazionali che non la capacità di apertura verso il sistema marittimo internazionale. Siamo ripiegati sulle nostre disfide di Barletta, sui conflitti tra guelfi e ghibellini, mentre non esprimiamo ancora un disegno nazionale di architettura logistica che deve essere necessariamente basato sulle gerarchie e sulle specializzazioni tra i sistemi portuali.
Nell’orizzonte della autonomia differenziata, ora in discussione in Parlamento, nel caso in cui fossero delegate alle regioni anche le decisioni relative alle grandi infrastrutture ed alla portualità, sarebbe valorizzata una competizione distruttiva su scala locale, piuttosto che un disegno capace di guardare alle trasformazioni che si stanno determinando nel mondo (Viesti, 2023).
Ancor prima della ulteriore frammentazione dei poteri pubblici, già ci pestiamo i piedi in modo invidiabile, favorendo la crescita di altre polarità mediterranee che sottraggono spazio competitivo al nostro potenziale ruolo. Lo scenario continua ad offrire opportunità, sia pure non in eterno.
Paradossalmente lo scalo nazionale che ha colto meglio le occasioni è quello di Trieste, perché si è proposto in realtà in modo funzionale alla efficienza logistica del centro e dell’Est Europa. Non c’è ovviamente nulla di male in tale strategia. In questo modo possiamo in diventare realtà piattaforma al servizio delle esigenze di altri, più in una logica subordinata che non di affermazione soggettiva.
L’Italia, con i suoi 8.000 km di coste e la posizione baricentrica nel Mediterraneo, è un Paese potenzialmente a grande vocazione marittima. Ce lo ripetiamo in ogni convegno da decenni a questa parte. Tuttavia, per ragioni prevalentemente storiche, non abbiamo mai sviluppato una vera cultura marittima. E’ soprattutto la retorica vuota degli slogan che ha impedito un processo capace di trasformare in fatti le teoriche opportunità che sono determinate dalla nostra posizione geografica.
Continuare a ripetere che siamo al centro del Mediterraneo non aggiunge nulla, se non la frustrazione del vuoto. Siamo tutti al centro del Mediterraneo, che è sempre stato un bacino policentrico, salvo quando non esisteva una realtà politica imperiale come quella romana. Costruire un ruolo marittimo significa mettere mano a tutti gli strumenti della politica economica, infrastrutturale ed industriale. Continuare a ragionare in una logica esclusivamente portuale è assolutamente controproducente. Senza una visione olistica rischiamo di continuare nella logica del declino.
E’ esattamente quello che è mancato nel corso di questi decenni. Soprattutto non siamo riusciti, assieme agli altri Paesi comunitari del Mediterraneo, ad impostare una strategia europea. Dopo la caduta del muro di Berlino, l’Unione ha indirizzato la sua priorità strategica verso Est, seguendo gli interessi prevalenti della Germania.
Intanto il Mediterraneo tornava ad acquisire un ruolo rilevante nei commerci internazionali e negli equilibri della geopolitica. Ma l’Europa non ha colto questa opportunità ed anzi ha assistito senza fare nulla all’ingresso nel Mare Nostrum di Turchia e Russia, che sono state protagoniste delle crisi siriana e libica. E ora questa tendenza continua anche dopo il colpo di Stato in Niger. Lasciare l’Africa alle iniziative di altri significa dare un colpo di maglio alle possibili prospettive dei porti meridionali.
In questo stesso periodo la Cina ha lanciato la Belt and Road Initiative (BRI), il progetto strategico infrastrutturale che sinora ha mobilitato investimenti per 962 miliardi di dollari, che ha dispiegato i suoi effetti anche nel bacino del Mediterraneo. Nella sponda meridionale del Mare Nostrum il gigante asiatico ha sinora investito 75 miliardi di dollari, di cui 16 miliardi in Turchia. L’Italia ha inseguito goffamente questo disegno, stipulando con la Cina un memorandum of understanding sulla Via della Seta, invece di concentrare le proprie energie sulle strategie mediterranee (Spirito, 2018).
Tra le altre azioni strategiche che sono state condotte da Cosco è il controllo del porto del Pireo in Grecia, diventato nell’arco di pochi anni il terzo porto del Mediterraneo e la porta di ingresso della Cina nel sistema europeo. Paradossalmente, la privatizzazione dei porti e degli aeroporti è stata imposta dalla Troika come necessità per poter concedere i prestiti necessari al salvataggio del sistema greco rispetto al default, e la migliore opportunità è stata colta dalla Cina, attraverso la compagnia marittima Cosco, che costituisce la longa manus pubblica delle strategie del gigante asiatico.
Insomma, le opportunità della economia marittima nello spazio economico del Mediterraneo non sono state colte per assenza di una visione strategica, non solo italiana ma anche europea. Il Mare Nostrum è stato identificato come il luogo della crisi dei migranti, e non come il sistema attraverso il quale riscrivere l’organizzazione economica dopo la crisi della pandemia e della guerra russo-ucraina.
Il raggio della globalizzazione, intanto, si sta accorciando dentro i confini delle macroregioni mondiali, e le stesse catene del valore si stanno riscrivendo in modo coerente con questa nuova visione che si sta affermando. Alcuni dati cominciano a renderlo evidente. Nel 2022 per la prima volta il traffico marittimo delle autostrade del mare (ro-ro) ha superato nei porti italiani in volume il traffico dei container: 120,8 milioni di tonnellate rispetto a 119,5 milioni.
Una rete delle autostrade del mare tra sponda nord e sponda sud del Mediterraneo è una delle azioni indispensabili per creare connessioni economiche tra i porti meridionali e l’Africa. Chiede all’Europa di autorizzare incentivi marittimi per lo sviluppo di queste rotte è uno degli strumenti che servono per gettare il ponte necessario per infittire gli scambi commerciali.
Intanto non ci stiamo accorgendo che l’economia marittima sta perdendo colpi nel nostro Paese, al di là della retorica che continua ad essere sparsa a piene mani. Occorre comprendere che nella evoluzione recenti degli ultimi decenni la logistica marittima ha perso terreno in Italia rispetto alla logistica terrestre. Fatto 100 nel 1995 il valore aggiunto di ogni segmento delle attività di trasporto e logistica, è rimasto stabile il trasporto terrestre, ed in leggero calo quello postale. Il settore marittimo oggi vale 50 ed il trasporto aereo 20. Le attività di magazzinaggio ed i servizi di supporto logistico sono aumentati invece di quasi il 50% (Randstand, 2023).
La crisi di Alitalia spiega sostanzialmente il crollo del trasporto aereo, mentre la netta caduta del settore marittimo è effetto di uno spiazzamento sempre più accentuato del sistema industriale italiano rispetto alla rete delle connessioni mondiali, tanto è vero che il volume complessivo delle tonnellate in arrivo ed in partenza dai porti italiani è rimasto sostanzialmente stabile nel corso di tutto questo lungo periodo.
Ora si presenta una nuova finestra di opportunità terminata dalla riscrittura della globalizzazione su scala internazionale, con il fenomeno emergente del reshoring che tende a riportare le fabbriche strategiche più vicine al cuore delle operazioni. Si tratta di processi che da un lato sono guidati dal mercato ma che dall’altro è indotto anche dalle politiche pubbliche, se vengono messe in campo.
Lo sviluppo delle connessioni sulle distanze medie, più che non sulle distanze transcontinentali, dovrebbe indurre a comprendere che la divisione internazionale del lavoro sta cambiando radicalmente architettura. Dopo la crisi delle forniture determinatasi con la pandemia, e l’interruzione delle catene del valore, i grandi blocchi economici stanno investendo nella dotazione endogena delle risorse strategiche.
Pensiamo alla industria dei microchips, nel cui caso l’Europa ha messo sul tavolo incentivi per 43 miliardi di dollari, gli Stati Uniti per 50 miliardi e la Cina sta predisponendo un piano per 143 miliardi. Impiantare nuovi stabilimenti produttivi dedicati a questo settore strategico testimonia la riscrittura della mappa manifatturiera e tecnologica degli ultimi decenni (Srm, 2023).
Reindustrializzare il nostro Paese, a cominciare dalle regioni meridionali che presentano ancora un deficit di capacità produttiva, è la mossa necessaria per riscrivere anche la rete delle connessioni trasportistiche, che legano i luoghi di produzione con quelli di consumo. Sinora non emerge alcun programma di politica industriale che vada in questa direzione, se si eccettua l’iniziativa che nel 2017 ha condotto alla costituzione di otto zone economiche speciali nel Mezzogiorno, recentemente riunificate in una unica ZES che comprende tutto il territorio meridionale.
La portualità meridionale costituisce ancora, come abbiamo detto in precedenza, un asset strategico per il sistema logistico italiano: concentra oggi tra il 40 ed il 45% del traffico commerciale del nostro Paese. Nella prospettiva dei prossimi decenni sono la piattaforma di dialogo verso l’Africa del Nord, che rappresenta il futuro dello sviluppo economico internazionale.