Prima parte della relazione del prof. Pietro Spirito al convegno “Le infrastrutture di trasporto: inventare il futuro”, organizzato a Roma dalla Fondazione Astrid.
1.L’orizzonte geopolitico e geostrategico della logistica meridionale
Il Mediterraneo, che costituisce circa l’1% della superficie marittima mondiale, concentra un quarto del traffico dei contenitori e circa il 30% della movimentazione delle rinfuse liquide (principalmente petrolio). Il Mare Nostrum è tornato ad essere un crocevia strategico di primaria rilevanza, dopo che la rotta atlantica e quella pacifica avevano conquistato il dominio della logistica marittima tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio della globalizzazione.
La centralità del Mediterraneo – negli scenari geopolitici che si stanno aprendo – ci interroga sul ruolo che potrebbe ricoprire l’Italia, ed in questo contesto i porti meridionali, nel futuro dell’economia marittima. Tuttavia, il nostro Paese continua a vivere ancora un provincialismo logistico, che è il principale nemico per giocare un ruolo da protagonista. L’orizzonte della pianificazione di lungo termine si è completamente perso (Spirito, 2023), così come la capacità di leggere le opportunità per il futuro dell’economia,
Non emerge nemmeno una prospettiva internazionale in chiave europea e mediterranea. Questa esigenza non riguarda solo l’Italia, ma l’intera Unione Europea. Nello scacchiere mediterraneo si muovono potenze economiche e militari interessate a costruire influenze in un’area che concentra i flussi di merce ma anche le strategiche risorse energetiche, sia quelle della vecchia economia sia quelle, in prospettiva, della energia sostenibile di domani, ma anche la connessione dei cavi sottomarini e lo sfruttamento delle risorse naturali.
Oggi – ancor di più – si avverte l’esigenza di un progetto geopolitico e geostrategico che sia in grado di collocare gli investimenti infrastrutturali in un perimetro largo composto dalle politiche industriali e logistiche su scala mondiale. L’economia è guidata dalle catene globali del valore che hanno riarticolato e ridisegnato i processi produttivi e logistici a partire dallo sviluppo e dal consolidamento della globalizzazione. Fuori da questo circuito si resta su un crinale di marginalizzazione, soprattutto quando la stessa globalizzazione sta conoscendo una fase di ridisegno e di riscrittura, dopo la pandemia e la guerra russo ucraina.
Ancora una volta i porti meridionali, che pure movimentano quasi la metà delle merci in arrivo ed in partenza dal nostro Paese, sono ancora rimasti sullo sfondo di una visione tradizionale, ancorata sostanzialmente all’economia italiana di diversi decenni fa, quando il nostro Paese esprimeva capacità competitiva attraverso le grandi industrie settentrionali ed i distretti del nord est. Quel mondo è scomparso, eppure ci aggrappiamo ancora alla rappresentazione di un sistema manifatturiero che si è indebolito, o addirittura non c’è più.
Intanto, lo scenario economico si è radicalmente modificato, e non abbiamo riflettuto sulle modalità attraverso le quali assicurare una continuità competitiva al sistema produttivo nazionale, nel passaggio dal capitalismo dei territori a quello delle piattaforme. Senza una centralità delle politiche industriali non può mai dipanarsi una politica della logistica. L’esito di questa mancanza di dialogo tra manifattura e connettività si è reso evidente con una colonizzazione logistica del nostro Paese e con un più generale arretramento di competitività, segnalato dalla stagnazione della produttività totale dei fattori.
L’Italia, ed il Mezzogiorno ancor di più, si è sganciata gradualmente dal treno della rivoluzione tecnologica, restando in buona parte estranea alla riorganizzazione del capitalismo digitale, se si esclude il decentramento produttivo di alcune industrie alla ricerca tattica di economie di costo. È mancata una visione strategica della mano pubblica, ed ora se ne vedono le conseguenze, con un orizzonte tutto schiacciato su decisioni di carattere tattico.
Il sistema portuale ha risentito dell’arretramento competitivo della struttura produttiva nazionale, in modo particolare nel Mezzogiorno, dotato di una armatura manifatturiera tradizionalmente debole, e soggetto nella fase più recente dal ripiegamento della grande industria pubblica.
Gli scali portuali sono andati in ordine sparso, privi di un disegno di articolazione strategica che ne consentisse la valorizzazione: sono prevalse le spinte verso la competizione interna, più che verso la proiezione su scala internazionale. La portualità meridionale è rimasta al traino di un disegno vecchio, che non corrisponde più alla realtà industriale internazionale del nostro tempo.
In questo modo il nostro Paese non ha colto le opportunità di crescita, mentre si sono sprecati fiumi di inchiostro sull’Italia quale piattaforma logistica del Mediterraneo. Solo l’intuizione di un imprenditore illuminato, quale è stato Angelo Ravano, ha consentito a Gioia Tauro di intercettare parte dello sviluppo mediterraneo del traffico dei contenitori, nel modello del porto di transhipment che ha catturato i transiti delle navi madre, di dimensione crescente, oggi sino ai 24.000 contenitori per le unità più grandi. Resta questa sinora l’unica vocazione chiara che lascia una traccia per gli anni futuri.
Ora, in un contesto che rende sempre più solidi i monopoli e gli oligopoli, non solo nell’industria, ma anche nell’economia marittima e nella logistica, stiamo consegnando capisaldi decisivi del nostro sistema infrastrutturale ai pochi soggetti che detteranno le condizioni al mercato.
Nel caso del trasporto marittimo stanno maturando le condizioni per la realizzazione di un oligopolio bilaterale che stringe legami tra vettori marittimi e terminalisti portuali, particolarmente nel settore dei containers. Il Mezzogiorno è in prima fila in tale deriva. L’industria marittima dei containers, cruciale per la globalizzazione, ha imbrigliato la discussione sul futuro del sistema portuale, mettendo al centro un segmento di mercato che, pur essendo certamente cruciale, non può assorbire l’intera articolazione delle politiche portuali. Restano sinora marginali almeno due settori cruciali che andranno messi al centro della riflessione, come le autostrade del mare e i terminali energetici.
Nel disegno della portualità italiana, proprio a testimonianza di una narrazione dominante che viene dal vecchio mondo delle ciminiere, nel PNRR viene sostanzialmente confermata la vecchia tesi delle due “ascelle” portuali settentrionali, rispettivamente collocate nel Mar Tirreno e nel Mar Adriatico, con i porti di Genova e di Trieste, mentre il resto del sistema è visto sostanzialmente in una funzione ancillare, assegnando a Gioia Tauro il ruolo di scalo di transhipment per i collegamenti transoceanici.
Continua a prevalere la lettura dei territori con lo specchietto retrovisore del passato, che ci può solo restituire l’immagine di ciò che è accaduto, senza indicazioni particolarmente significative per i sentieri in buona parte ignoti che dobbiamo affrontare nel nostro futuro prossimo. Accade persino che le immagini del passato possano essere fuorvianti per le sfide che ci attendono.
Per paradosso, i porti del nord Italia svolgono un ruolo strategico soprattutto per l’economia industriale del centro e dell’est Europa, inclusa la pianura padana, mentre sono i porti meridionali che dovrebbero essere la piattaforma primaria per garantire una presenza europea nel Mediterraneo. Il baricentro del futuro sarà collocato maggiormente verso il Mezzogiorno, per effetto di dinamiche demografiche e scelte di investimento che si stanno orientando verso il Nord Africa.
Oltretutto, la quota più rilevante delle risorse destinate agli investimenti nella portualità (3.3 miliardi di euro per la durata del PNRR, sino al 2026) è indirizzata per la realizzazione della diga foranea di Genova, con uno stanziamento previsto di 500 milioni di euro, rispetto ad un costo dell’intero progetto pari, secondo le stime più attendibili, a poco meno di 2 miliardi di euro.
Questa opera è oltretutto funzionale principalmente agli interessi di un solo concessionario, mentre gli investimenti del PNRR dovrebbero essere centrati sul conseguimento di interessi collettivi capaci di sintetizzare una visione proiettata verso il futuro della competitività per l’intero territorio nazionale dentro un quadro comunitario.