E se ce ne andassimo a vivere nelle profondità del mare, senza rischio contagi, senza discorsi politici, insomma nel silenzio delle acque? Perché mi è venuta in mente una soluzione così fantascientifica, l’unica forse, a tutti i nostri attuali problemi?
Ho letto in Storie e leggende napoletane di Croce, il racconto di Colapesce, un fanciullo che amava starsene sempre in mare, a cui la madre lanciò una maledizione: potesse diventar pesce! E così fu. Il ragazzo per percorrere in mare le lunghe distanze si faceva ingoiare da enormi pesci, poi, arrivato a destinazione, con un coltello, sventrava dal di dentro i pesci trasportatori e tornava libero. Tante furono le avventure del nostro eroe, spesso sollecitato dalle curiosità del re (Ruggero di Sicilia, Federico II?). Il fondo del mare era formato di giardini di corallo; nelle misteriose grotte di Castel dell’Ovo c’erano mucchi di gemme; l’isola di Sicilia poggiava su tre enormi colonne, una delle quali spezzata. Insomma, meraviglie che forse il popolo napoletano immaginava in quel mare da cui pure traeva sostentamento. La morte di Nicola pesce avvenne, manco a dirlo, sott’acqua. Quasi come una tersa e trasparente lastra sepolcrale il mare gli impedì la risalita quando, inviato in missione dal solito re a recuperare a Messina una palla di cannone, non riuscì più a risalire a galla. Un po’ come muore, fatte salve le dovute differenze, l’Ulisse dantesco. Croce fa risalire la leggenda a testi medioevali, forse di origine messinese. Ma questa ricerca filologica non è al momento nelle nostre corde. Quello che invece, in questa anticipazione di primavera, con le dovute cautele potremmo fare è andare a vedere la testimonianza, forse, di Colapesce, con l’iscrizione che ne ricorda il ritrovamento. Si trova nelle strettoie di Porto, di fronte a Mezzocannone.
Lì troviamo un bassorilievo emerso durante gli scavi per le fondazioni di Sedile di Porto e murato poi nel 1700. Vi è una lapide in latino, posta sulla facciata di un’abitazione, che ricorda il ritrovamento di questa lastra che raffigura un uomo peloso con un pugnale in mano. Forse proprio il coltello ha portato l’immaginario popolare ad identificare l’effigie con Colapesce. In realtà si tratterebbe di altro eroe mitologico dell’antichità, forse Orione. L’originale del reperto è ora al Museo di San Martino.
Ma cosa ci insegna o ci lascia come testamento la leggenda? La tendenza ad immaginare uomini con virtù diverse da quelle naturali, l’attrazione fatale per il mare, avvertito come luogo diverso, ignoto e pericoloso, diceva Pulcinella p’ mare nun ce stann tavern, la speranza di mezzi miracolosi con cui i marinai forse pensavano di poter vincere i rischi del loro lavoro, o semplicemente quanto sia pericoloso disobbedire alla madre.
Sta di fatto che oltre tutte le ragioni suddette a noi la leggenda lancia un monito più attuale: non arriviamo al punto che per salvarci dobbiamo cercare un altro habitat, conserviamo e tuteliamo quello che abbiamo.