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L’INCHIESTA. Brucellosi bufalina in Campania 1: la decimazione agricola

by Pietro Spirito
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La brucellosi bufalina in Campania non è solo una storia di malasanità, ma di riorganizzazione del capitalismo agricolo.

 

  1. Lo scenario della decimazione agricola nell’era del capitalismo commerciale.

Durante gli ultimi dieci anni oltre 140.000 bufale sono state macellate nel casertano. E’ una strage silenziosa, che prosegue ancora nella disattenzione di larga parte della pubblica opinione. La decimazione delle mandrie ha condotto alla chiusura di molte aziende, alla perdita di occupazione, alla crisi di una filiera che rappresenta una delle eccellenze della produzione agroalimentare nazionale, forte anche sui mercati internazionali.

Questa vicenda non si spiega se non si analizza anche il processo di trasformazione che si è prodotto nella filiera agroalimentare italiana negli ultimi quarant’anni. Se negli anni Ottanta del secolo passato un terzo del valore prodotto andava agli agricoltori, un terzo all’industria di trasformazione ed alla logistica, ed un terzo infine alla commercializzazione, oggi la commercializzazione assorbe oltre due terzi del valore complessivo, mentre tutti gli altri attori competono per le briciole che restano.

Il Made in Italy agroalimentare, per come lo abbiamo conosciuto nei decenni passati, è andato a farsi benedire. Non conta quasi più il rigoroso controllo della filiera ma diventa centrale la ricerca delle materie prime al più basso costo, mantenendo soltanto un marchio di cui si sono perdute le caratteristiche originarie.

Il Mezzogiorno è stato il primo territorio ad abdicare dalle radici produttive agricole quando, a seguito di una modifica della regolamentazione che ha consentito la compravendita dei diritti delle quote latte su scala sovraregionale, negli anni Ottanta gli agricoltori nel Nord hanno acquisito buona parte delle quote latte degli allevamenti meridionali.

Questa mossa ha consentito di posticipare per il Nord la crisi successiva da sovra-produzione, poi scontata con la maximulta pagata alla fine dai contribuenti alla Unione Europea. Buona parte delle aziende meridionali era dunque già scomparsa da tempo dal panorama produttivo, senza che nessuna politica fosse messa in campo per contrastare la desertificazione del modello agricolo nazionale.

E’ saltato nel frattempo il meccanismo di organizzazione sociale e politica che aveva caratterizzato la storia del nostro Paese nei decenni dello sviluppo economico. Il corretto funzionamento dell’economia è dato dall’equilibrio tra diverse componenti: buona programmazione pubblica di lungo periodo, robusta intelaiatura del mercato, efficaci norme per la regolamentazione.

La pianificazione è venuta meno, come le stesse politiche per la gestione agricola, il tessuto degli operatori si è indebolito, le regole si sono imbolsite ed hanno peggiorato ulteriormente la qualità dell’ambiente concorrenziale. Il mercato si è gerarchizzato, con l’anima commerciale che ha avuto decisamente il sopravvento sulla componente produttiva.

Alla diversa distribuzione del valore tra i soggetti del mercato, si aggiunge l’immancabile distorsione burocratica destinata a gettare sulla testa dell’agricoltura italiana la mazzata aggiuntiva verso la marginalizzazione. In Francia, con il doppio dei capi animali rispetto all’Italia, operano complessivamente 700 veterinari pubblici, con una retribuzione pari mediamente a 57.000 euro all’anno. In Italia i veterinari pubblici sono 7.000, con una retribuzione media pari a 17.000 euro all’anno.

Un esercito salariale di riserva, largamente sovradimensionato rispetto alle necessità e nettamente sottopagato, si è dedicato – con ostinazione degna di miglior causa – ad introdurre tutta una serie di pratiche disallineate rispetto agli standard definiti dagli organismi internazionali per la lotta alla brucellosi; tali scelte hanno peggiorato la politica sanitaria del settore, in particolare nel caso delle bufale campane.

In dieci anni, per abbattere le bufale casertane sono state spese risorse per oltre un miliardo di euro di fondi pubblici. Questo denaro è stato affidato all’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno di Portici, passato in questo periodo da 130 ad un numero superiore ai 500 dipendenti.

Dentro questo quadro d’assieme bisogna leggere la storia delle bufale campane, che altrimenti rischia di essere ricondotta solo ad una epidemia di brucellosi finita fuori controllo. Nel backstage di tale eccidio animale si legge in controluce la riorganizzazione di poteri economici che colgono la palla al balzo della malattia per disarticolare i tasselli tradizionali della filiera al fine di reimpostarla secondo una diversa logica di massimizzazione del valore.

Sono tutti stati penalizzati da questa terribile vicenda? Non è così. Mentre gli allevatori casertani sono da più di un decennio nel pieno di una crisi di nervi, molti si stanno continuando a fregare le mani, a cominciare dalle multinazionali della macellazione di carni, che – a prezzo di saldo – continuano a comperare le carni delle bufale uccise, potendo in questo modo ridurre le importazioni dall’estero, riuscendo a tenere basso il prezzo della materia prima basilare per le loro lavorazioni. La quasi totalità dei capi mandati al macello è stata inviata da parte dell’Asl di Caserta al macello di Flumeri (AV), a circa 100 Km di distanza dalla provincia di Caserta, allo stabilimento Real Beef del gruppo Cremonini.

Poiché l’agente patogeno non contamina le carni ma solo alcuni organi, esse sono state svendute per un corrispettivo pari a circa il 10 per cento del valore e sono finite in scatola nel misto bovino-bufalino predisposto da chi si è organizzato al ritiro di tali carni di animali abbattuti perché malati ma al tempo stesso mangiabili se trattati in modi tecnici non accessibili ai produttori privati. Il profitto conseguito attraverso questa tecnica è stato stimato pari a 600 milioni di euro.

Nella competizione tra territori limitrofi sullo stesso mercato, alla crisi bufalina casertana corrisponde il consolidamento della filiera salernitana, risultata sinora indenne rispetto alla crisi della brucellosi, nonostante la prossimità geografica, al confine con la provincia casertana.

Insomma, come spesso accade, nelle grandi disgrazie si formano anche le grandi fortune. Che possa esistere anche una trama di connessione tra questi elementi è un dubbio che comincia a venire, considerata l’ostinazione errata con la quale è stata affrontata questa crisi sanitaria.

Le modalità di gestione dell’emergenza brucellosi ha lisciato il pelo alle trasformazioni della filiera agroalimentare verso una dominanza del sistema di commercializzazione rispetto al modello di produzione. La decimazione delle bufale ha favorito la concentrazione dei poteri, la gerarchizzazione del mercato in favore delle multinazionali, l’indebolimento della presenza sul territorio di piccole e medie imprese.