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Liberali, neoliberisti e ferrovieri

by Pietro Spirito
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Sentire evocare il socialismo ferroviario da un politico della seconda repubblica fa sorridere amaramente. I ricordi si attenuano sempre, sino a scomparire: si tratta di uno dei mali endemici della politica nazionale. Il vessillo dello statalismo ferroviario era brandito dai partiti della prima e della seconda repubblica. In particolare, quando questa storia comincia, il socialismo dei binari era rappresentato con orgoglio dal ministro Claudio Signorile, al quale peraltro va riconosciuto il merito di aver fortemente voluto l’ultimo piano nazionale dei trasporti degno di questo nome.

Bisogna ricordare cosa erano le ferrovie alla fine degli anni Ottanta del secolo passato: un carrozzone con 225.000 dipendenti che ogni anno perdeva almeno 2.000 miliardi delle vecchie lire. Era lo Stato ad intervenire a piè di lista per consentire alla politica di mungere il carrozzone, forse in nome del capitalismo attento alla efficienza ed alla produttività.

Arrivai alle ferrovie chiamato da un manager di lungo corso del migliore capitalismo privato italiano, Mario Schimberni, al quale era stato chiesto di mettere mano ad una delle tragedie nazionali esplosa dopo lo scandalo delle lenzuola d’oro, uno dei segnali premonitori della Tangentopoli che sarebbe venuta di lì a poco. Evidentemente agivano tutti gli enzimi del migliore capitalismo. Giulio Andreotti, allora, aveva formulato una delle iconiche frasi per le quali è rimasto famoso: esistono due pazzi sulla faccia della terra, chi crede di essere Napoleone e chi crede di poter risanare il bilancio delle ferrovie.

Il sistema delle mazzette che girava attorno alle ferrovie riguardava tutti i partiti, ma proprio tutti. L’azienda era arrivata in quella orribile condizione per responsabilità della politica, di tutta la politica. Assunzioni dissennate, potere decisionale nelle mani dei fornitori, investimenti effettuati solo per tenere le fauci strette alle mammelle della spesa pubblica, pan-sindacalismo legato a doppio filo con i danti causa della politica.

Un gruppo di manager di altissimo valore, in venti anni, ha dimostrato che Giulio Andreotti aveva detto una sesquipedale sciocchezza. Da oltre dieci anni le ferrovie sono un gruppo di società che chiudono i bilanci con robusti profitti, i dipendenti sono oggi circa 70.000, più di tre volte meno che alla fine degli anni Ottanta, con un volume di produzione che è aumentato almeno del 30%. L’alta velocità è stata l’unica rivoluzione infrastrutturale e trasportistica degli ultimi quaranta anni in Italia.

Quel carrozzone oggi non esiste più. E’ diventato un gruppo industriale di società che operano sul mercato, con l’eccezione di Rete Ferroviaria Italiana che governa un monopolio naturale. L’arroganza della politica, che aveva sfasciato un’azienda di importanza capitale per l’economia italiana, è stata sconfitta, pur se negli anni recenti sta rialzando la testa. I valori del capitalismo sono stati nuovamente introdotti nel corpo dell’impresa, distruggendo lo statalismo che l’aveva corrosa in modo quasi irreparabile.

Tuttavia, proprio chi è stato tra i protagonisti di questa rivoluzione capitalistica nelle ferrovie è abilitato, perché quella trasformazione ha voluto e realizzato, a valutare i guasti che il neoliberismo sta determinando da qualche tempo a questa parte anche nel sistema ferroviario. Non esiste difatti un solo modo di gestire il capitalismo. Chi lo sostiene opera una torsione ideologica davvero scorretta. Questo equivoco va chiarito con molta precisione. Si confrontano, per essere schematici, due modelli: il capitalismo anglosassone e quello renano.

Il primo in linea di massima si riconosce nel principio neoliberista che si pone l’obiettivo di realizzare uno Stato debole, che deve essere affamato e sconfitto per dare spazio solo al massimo profitto dei privati, mentre il capitalismo renano guarda con attenzione agli interessi di tutti gli stakeholders, riconosce il principio della efficienza e della profittabilità, coniugando questi traguardi con la solidarietà e l’interesse generale.

Liberalismo e neoliberismo sono due movimenti ideologici sideralmente distanti. Oggi negli Stati Uniti il Partito Democratico esprime idee liberali, mentre i Repubblicani di Donald Trump sono neoliberisti. Dove sta la differenza sostanziale? Nel ruolo che è chiamato a svolgere lo Stato: per i neoliberisti, come dicono, bisogna “ammazzare la Bestia”, vale a dire la mano pubblica, rendendola impotente, mentre per i liberali le istituzioni svolgono un ruolo fondamentale per mettere in campo le regole e per promuovere lo sviluppo economico.

L’Italia viene da un’altra storia, che forse abbiamo dimenticato completamente. Lo Stato nell’economia è stato espropriato, a partire dagli anni Settanta del secolo passato, dai partiti e dalla politica, degenerando nello statalismo che ha distrutto l’autonomia dei manager per mettere alla guida delle aziende pubbliche dei Gauleiter di hitleriana memoria, esecutori di ordini per portare soldi e potere alla casta.

Solo chi non ha vissuto l’esperienza delle ferrovie non può capire quanto sia stato duro a morire lo statalismo. Un mio autorevole collega la spiegava così: caro Pietro, a noi i ricavi ci fanno schifo, siamo affezionati solo ai costi. E’ stata una battaglia durissima, palmo a palmo, per riuscire a determinare la torsione culturale delle ferrovie verso i princìpi del capitalismo di mercato.

Lo abbiamo fatto, ed abbiamo vinto. Ma non avevamo in testa il capitalismo neoliberista, che subordina tutto al profitto di breve periodo. Le ferrovie sono una società per azioni pubblica che deve produrre utili, servizi di qualità, connessioni per il sistema Paese. E sono anche un’azienda in un settore caratterizzato da una logica di lungo periodo: per tale ragione entra in conflitto palese con i principi del neoliberismo, che invece appiattiscono le valutazioni solo alla profittabilità nel breve periodo.

Veniamo nuovamente alla tragica vicenda di Brandizzo. Le logiche delle esternalizzazioni al massimo ribasso, e dei subappalti senza limiti che caratterizzano il nuovo codice degli appalti, rappresentano il trionfo del neoliberismo. Chi effettua le prestazioni da fornitore tende a massimizzare il tempo delle lavorazioni cancellando ad ogni costo i tempi morti, così come chi è chiamato a controllare guarda prima al risultato, e poi alle regole di sicurezza. In un sistema come quello ferroviario si gioca con il fuoco. Le procedure di sicurezza sono il pane quotidiano indispensabile con il quale si alimenta e vive il sistema ferroviario.

Varcare questa invalicabile soglia non è un singolo errore umano. Come sta testimoniando l’inizio della inchiesta sui cinque morti di Brandizzo, era invalsa la prassi di operare la manutenzione dei binari in assenza della interruzione di circolazione.

Anzi, addirittura i più precisi controllori di cantiere, che continuavano a far rispettare la regola in modo rigoroso, erano posti ai margini della organizzazione. Questo è il neoliberismo. Piegare i principi dell’organizzazione e della sicurezza alla logica del profitto intorbida le acque e mette a rischio la vita dei lavoratori, come è accaduto tragicamente in questo caso.

Stia tranquillo, Vincenzo D’Anna. Non sono anticapitalista. Sono stato tra i protagonisti della privatizzazione delle ferrovie. Direi piuttosto che ho contribuito a combattere lo statalismo, come oggi combatto il neoliberismo, che non è il capitalismo in assoluto, ma solo una sua versione estremista, alla Donald Trump o alla Jair Bolsonaro. Giocare con la vita delle persone è un reato. Violare le regole di sicurezza per perseguire il profitto è un gravissimo delitto. Il capitalismo renano, che a me – da liberale – piace, non lo consentirebbe mai.