fbpx
Home In evidenza L’Europa vista dalla Groenlandia, vaso di coccio tra interessi d’acciaio

L’Europa vista dalla Groenlandia, vaso di coccio tra interessi d’acciaio

un’analisi tecnico-militare

0 comments

Ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, Capo di Stato Maggiore Emerito delle Forze Armate italiane.

 

Questa analisi è del tutto personale, dunque di tipo tecnico-militare, e prescinde volutamente da qualsiasi valutazione politica, pur nella consapevolezza che è la politica a decidere e guidare le scelte a carattere strategico-militare di cui è eminentemente responsabile.

Oggi l’Europa è circondata da teatri di crisi, di tensione e in più, rispetto al recente passato, di conflitti aperti e cruenti, come in Ucraina, in Medio Oriente e nel Mar Rosso.

Tra questi il conflitto più preoccupante si consuma in Ucraina, perché coinvolge direttamente una superpotenza come la Russia e di conseguenza le alleanze occidentali, NATO e UE.

Gli altri conflitti sono per così dire “per procura” (by proxy, come dicono gli anglofoni) in quanto apertamente o subdolamente alimentati dalle grandi potenze antioccidentali e antidemocratiche, una nuova “guerra fredda” in chiave moderna.

Se guardiamo l’Europa dall’estremo nord, la sola geografia, da questa prospettiva, evidenzia come il primo teatro di tensione e di possibili crisi/conflitti, il più pericoloso, si configuri al Nord, tra lo stretto di Bering, il Baltico e la Siberia, fino all’Islanda e alla Groenlandia, dal mitico “Passaggio a Nord-Ovest” alle nuove rotte commerciali da est, insomma nell’intera regione dell’Artico. Un oceano di ghiaccio (per ora) che, grazie all’apertura delle vie marittime causata dal sempre più rapido arretramento della calotta polare, nasconde impensabili opportunità economiche, inestimabili risorse minerarie, energetiche ed alimentari, ancora in buona parte inesplorate. Risorse comprovate e già contese in un intreccio di interessi contrapposti che coinvolge moltissime nazioni, apparentemente molto lontane, se osservate dall’equatore, ma qui vicinissime, anzi confinanti e già presenti finanziariamente, economicamente e militarmente. Un intreccio complicato da un contesto giuridico internazionale obsoleto dove convivono (per ora) contese mai risolte legate alla definizione della piattaforma continentale e alle pretese di sovranità su isole minori fino a ieri insignificanti, oggi strategiche. Una situazione fluida che può dare adito a disinvolte e pericolose interpretazioni da parte dei maggiori attori in campo.

Da questo punto di vista i russi sono in grande vantaggio nell’area, sia perché il loro arsenale militare, soprattutto nel settore marittimo, è predominante in quel teatro, con basi e installazioni molto vicine alle aree contese e una flotta rompighiaccio che non ha uguali.

Da tempo la Russia sfrutta massivamente e senza riguardi per l’ecologia, le risorse presenti in Siberia e nei tratti di mare circostanti. I Gulag siberiani fin dai tempi degli Zar servivano a far perdere le tracce dei dissidenti, ma anche per disporre in loco forza lavoro gratis per le miniere di rame, zinco ecc., minerali oggi ancora più preziosi per le nuove tecnologie, telefonini ad esempio e batterie per auto full-electric.

In sintesi, noi europei, “smartphone addicted” e con l’orgoglio ecologista delle nostre (avventate e demagogiche) scelte nel settore auto, contribuiamo ignavi all’inquinamento dell’Artico, la nostra riserva di vita!

Anche la Cina è presente, avendo percepito con grande lungimiranza le nuove opportunità, e sta pervicacemente acquisendo azioni e partecipazioni nelle maggiori aziende usa canadesi ed europee della regione, in particolare in Groenlandia.

Non è un caso quindi che Trump stia “rispolverando” a modo suo un vivo interesse verso la Groenlandia danese e addirittura il Canada (forse solo una provocazione, ma certamente un chiaro messaggio a Mosca e a Pechino). E non è un caso che tutte le nazioni scandinave abbiano aderito precipitosamente alla NATO.

Dunque, quello artico è un teatro dove si profilano inquietanti scenari di tensione tra superpotenze, senza possibilità di conflitti indiretti o “per procura”, per questo il più pericoloso.

Un’altra regione di crisi è dalla parte opposta, a sud dell’Europa, rappresentata dall’Africa e dal vicino oriente, dove i conflitti esistono da quando eravamo bambini.

Per comprendere questo scenario va detto che il continente africano, in particolare la sua porzione settentrionale dalla sponda sud del Mediterraneo all’area Sub sahariana fino al Golfo di Guinea (ma direi l’intero continente), è un grande contenitore di opportunità e risorse, equiparabili a quelle dell’Artico, molte delle quali non del tutto sfruttate, benché in larga misura già “prenotate” dalla Cina, attivissima da più di tre decenni in quasi tutti i paesi africani.

Il secondo attore spregiudicato in quest’area è la Russia, anche attraverso la presenza di formazioni mercenarie tipo Wagner, il cui sostegno alla Libia di Haftar, ha fruttato a Putin la base navale di Tobruk, a compensazione dello “sfratto” da Tartus in Siria.

Russia e Cina già da tempo condividono un trattato, detto “arco di ferro”, che permette alle due flotte di sfruttare reciprocamente le risorse logistiche dei due paesi, siano esse porti o aeroporti, da Vladivostok a Gibuti, dalle coste atlantiche del Marocco ad ovest fino al Mediterraneo e al Mar Nero a est e la flotta cinese è in vertiginosa espansione. Più recentemente le due potenze hanno stipulato un più ampio accordo di cooperazione “senza limitazioni”.

Da qui si comprende come l’Italia in particolare ponga con fermezza l’accento sul “fianco sud” (della Nato), dal conflitto medio orientale, alle tensioni della sponda sud, fino al Mar Rosso, porta di accesso al Mediterraneo. Parliamo di minacce, questa volta dirette, ai nostri interessi nazionali. Superfluo quindi sottolineare l’importanza della nostra Penisola, sia come piattaforma naturale per il controllo e la tutela del “Mare Nostrum”, sia come “focus” economico verso la sponda sud (Piano Mattei). In questo contesto anche il ponte sullo Stretto assume una rilevanza strategica.

Il terzo teatro, non meno delicato per il “Vecchio Continente”, e per l’Italia in primis, per il suo traffico marittimo da e per l’Est (il motore del 40/50% delle nostre risorse) si colloca in estremo oriente, nel Pacifico. Un’area immensa dove l’espansionismo marittimo militare e mercantile cinese rischia di impedire o quantomeno di penalizzare le nostre rotte commerciali, laddove le crisi legate a Taiwan o alle due Coree sfociassero in conflitti aperti.

È evidente che in questo arco di crisi l’Unione Europea è non solo centrale, ma il proverbiale “vaso di coccio” stretto tra gli interessi d’acciaio dei principali attori: USA, RUSSIA e CINA.

Sento vagheggiare di una Difesa comune europea, di Forze Armate Europee. Un obiettivo altamente auspicabile ma, a mio avviso, quantomeno prematuro, soprattutto un falso obiettivo, per non affrontare il vero nocciolo della questione. Perché per essere militarmente credibili occorre prima di tutto realizzare una forte coesione politica e industriale, al momento lontana, come dimostrano il diversificato atteggiamento verso il conflitto in Ucraina, ma soprattutto le diverse politiche economiche e industriali dei paesi membri.

Grazie a 70anni di attiva appartenenza alla NATO, le Forze Armate dei Paesi UE sono perfettamente in grado di operare insieme, integrate in contesti multinazionali, ma per una credibile capacità militare comune e autonoma, lo ripeto, occorre poter esercitare deterrenza, ovvero e prima di tutto una forte coesione politica per il suo impiego, una unicità di comando politico/militare che è ancora tutta da inventare.

Dunque, restiamo con i piedi per terra, saldamente ancorati alla NATO e ai valori occidentali che includono anche gli Stati Uniti, senza pericolose competizioni, né velleitarie dichiarazioni di potenza, ma contribuendo con convinzione all’Alleanza Atlantica, che per oltre 70 anni è stata la nostra migliore assicurazione di libertà e benessere. Contribuire in solido anche per poter contare di più nei processi decisionali, che, da che mondo è mondo, sono appannaggio del maggiore azionista.

Ma, detto questo, come potrebbe l’Unione Europea contare anche di più?

Innanzitutto, consolidando un più strutturato rapporto di cooperazione e dialogo con la NATO, oggi molto labile, al fine di giungere a una pianificazione delle capacità militari più complementare, anche estesa ai nuovi campi ibridi (Droni, Cyber, AI ecc.).

In secondo luogo, avviando un processo di “force planning” integrato tra tutti i paesi membri, inteso a ridurre per quanto possibile le ridondanze e a colmare i gap capacitivi.

Se è vero che la sommatoria delle spese militari dei paesi UE è, se non vado errato, superiore a quella USA, è anche vero (e questo lo confermo) che in termini di capacità pregiate siamo infinitamente inferiori, mi riferisco alle capacità aeronavali (portaerei e aerei di sorveglianza marittima), a quelle aerospaziali (satelliti di sorveglianza e di comunicazione),  alle capacità anfibie, alla difesa antimissile, alle capacità subacquee (sottomarini e sistemi di sorveglianza subacquea alla luce delle criticità e della vulnerabilità di questa dimensione) ecc. ecc., con grandi ridondanze invece nelle capacità più tradizionali.

Il conflitto in Ucraina prima o poi terminerà, prevedibilmente con un vantaggio russo, ma la tensione a est e da est permarrà a lungo, così come le ataviche tensioni nel Medio Oriente. Ma gli occhi di Putin e di Xi (e dei loro successori), a mio parere, guardano già oltre: all’Artico, al Pacifico e all’Africa.

Si comprende quindi perché gli Stati Uniti e gran parte delle Nazioni europee antepongano il fronte settentrionale e orientale a quello meridionale, magari guardando al futuro prossimo piuttosto che a quello lontano, che probabilmente sposterà il focus a sud e molto più a est.

L’Italia, come Regional Power, dovrà dunque prepararsi ad operare come nazione leader nel cosiddetto “Mediterraneo Allargato”, a difesa dei nostri interessi nazionali e a sostegno dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea.

Siamo pronti a questo? Le missioni di pace, pur meritorie, ci hanno abituati a scenari meno duri, posture non propriamente combat e dinamiche logistiche di tipo commerciale, “just in time” e “on demand”. Dobbiamo cambiare rapidamente registro, l’Esercito lo sta facendo, per bocca dal suo attuale Capo di Stato Maggiore, Marina e Aeronautica, non avendo mai abbassato la guardia sull’addestramento combat, sono a buon punto, come dimostrato in varie occasioni, ultimamente in Mar Rosso e nei cieli baltici. Dobbiamo crescere nella resilienza, soprattutto logistica, non è più rimandabile.

Sento parlare di riattivare la Leva obbligatoria. In proposito sono molto scettico. Un servizio di leva old-school non funzionerebbe granché nella complessità dei conflitti moderni. Andrebbe rifondato alla radice il sistema, con un approccio più moderno a interagenzia, superando ogni netta separazione tra il mondo civile e quello militare e ad esempio realizzando un “database” di competenze specifiche dei nostri giovani da poter impiegare in ruoli tecnici e di supporto, all’occorrenza. Ma occorre anche potenziare gli attuali organici e riequilibrare le dotazioni di personale delle FF.AA.

Dobbiamo superare, con pragmatismo, alcuni vincoli di legge e la logica “del pantografo” nel bilanciamento organico delle tre FF.AA. Una logica conservativa e superata che non consente la oggi l’indispensabile flessibilità.

Trovo infatti abbastanza incongruo che l’organico della nostra Marina, la sesta Marina mondiale, sia largamente inferiore a quello dell’Aeronautica, questa anomalia non si riscontra in nessun’altra Nazione marittima, come l’Italia.

Senza nulla togliere alle dotazioni organiche dell’Arma Azzurra, la Marina oggi è in grave sofferenza di organico e tuttavia è impegnata in operazioni reali molto più che in passato. Missioni che assolve con grande efficacia pur richiedendo pesanti sacrifici agli equipaggi. È prassi consolidata che al rientro da una missione di due o tre mesi una aliquota dell’equipaggio debba trasferirsi su un’altra Unità già in partenza per ripianarne le carenze. E si tratta spesso del personale più specialistico ed esperto. Non così si può conseguire l’obiettivo indicato per la US Navy dall’attuale CNO (Adm. Lisa Franchetti). Un obiettivo che ritengo di assoluta priorità: Recruit and RETAIN TALENTS.

Insomma, guardiamo al futuro senza eccessivo timore, ma con maggiore attenzione e minor provincialità, ma, soprattutto, rimbocchiamoci le maniche perché il miglior   viatico per la stabilità e la pace, purtroppo, poggia ancora su una credibile deterrenza.

Leave a Comment