Sono tre le riforme caratterizzanti il governo Meloni: l’autonomia differenziata, il presidenzialismo e la riforma della giustizia. Tutte e tre saranno oggetto di referendum. Magari qualche dubbio c’è su quella della giustizia, ma sulle prime due ve n’è certezza.
Le prime due, appunto. Si tengono assieme e, in qualche modo, si bilanciano tra loro. Se l’autonomia differenziata agisce da forza centrifuga nel Paese, il presidenzialismo agisce in senso opposto. Fin qui sulla carta e, forse, nelle intenzioni dei riformatori. Diciamo forse, perché non siamo mica convinti che i fautori dell’autonomia differenziata – la Lega su tutti – siano così pronti ad accettare un forte potere centrale come vogliono i presidenzialisti. E viceversa.
Analizziamo comunque nel merito le tre riforme, cominciando oggi con l’autonomia differenziata.
Con l’ausilio di un atlante storico diamo un occhio alla cartina geopolitica d’Europa. Anni ‘80: si vedono due Germanie, quella Federale ad Occidente e quella Democratica ad Est; ci sono la Cecoslovacchia e la Jugoslavia; l’intera galassia dell’Est Europa è praticamente tutta annessa all’Unione Sovietica. Già, c’era anche l’Unione Sovietica. Non stiamo parlando del Medio Evo, siamo a solo quaranta anni fa.
Oggi le due Germanie sono riunificate, non c’è più la Cecoslovacchia, ma la Repubblica Ceca e la Slovacchia. La Jugoslavia è scomparsa, al suo posto Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Kossovo, Montenegro e Macedonia del Nord. Anche l’URSS non c’è più. Le ex Repubbliche Socialiste Sovietiche si sono rese indipendenti.
Di questi processi storici solo due sono stati indolori, la riunificazione della Germania e la separazione ‘consensuale’ tra Repubblica Ceca e Slovacchia. In Jugoslavia invece la separazione è stata conflittuale e atroce. Negli anni Novanta è scorso tanto sangue nei Balcani. E in questi giorni stiamo assistendo alla tragedia ancora in atto dello smembramento dell’URSS, con i suoi lutti e la minaccia portata alla pace dell’intero continente.
È in questo contesto che, tra fine anni Ottanta e inizi anni Novanta, parallelamente al collasso dell’Unione Sovietica, nacque tra Lombardia, Veneto e Piemonte la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania. Si chiamò così e – nomina sunt omina – il suo nome ne esplicitava il programma, separare il Nord Italia dal resto della Penisola. Le regioni ricche si rifiutavano di continuare a ‘fare assistenza’ al Mezzogiorno e a sovvenzionare ‘Roma ladrona’ con le loro tasse. Questa l’ideologia.
Gianfranco Miglio ne fu il profeta, Umberto Bossi il leader.
Nel ‘91 nella Lega confluirono la Liga Veneta, la Lega Lombarda, Piemònt Autonomista, Union Ligure, Alleanza Toscana-Lega Toscana-Movimento per la Toscana, Lega Emiliano-Romagnola. L’aggregazione si presentò alle elezioni politiche del ‘92 e su scala nazionale ottenne l’8%, ottanta parlamentari tra Camera e Senato. Su scala macroregionale si attestò intorno al 20% in Lombardia e Veneto. L’anno dopo, nel ‘93, la Lega Lombarda conquistò Palazzo Marino a Milano, Marco Formentini fu il primo sindaco leghista di una grande città italiana.
La marea separatista cresceva nel Nord, mentre sul piano nazionale tangentopoli, se da un lato rafforzava i convincimenti leghisti su Roma ladrona, dall’altro sembrava stesse aprendo le porte di Palazzo Chigi all’ex Pci, ora Pci-Pds guidato da Achille Occhetto.
Scese allora in campo Silvio Berlusconi e fondò Forza Italia. Strinse alleanza con la Lega al Nord e con Alleanza Nazionale al Sud. Elezioni politiche del ‘94: caporetto della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto e primo governo Berlusconi. La Lega continuò a spingere sul federalismo con forti accenti separatisti. È qui che D’Alema, subentrato ad Occhetto alla guida del Pds, diede il meglio di sé. Riuscì a staccare la Lega da Berlusconi e Fini, a stringere accordi col centro cattolico e liberale, e a far cadere il governo del cavaliere. Nel ‘96 il centrosinistra vince le elezioni politiche.
La Lega di Bossi passa all’incasso. D’Alema dà vita alla Commissione Bicamerale per la Riforma della Costituzione e la presiede. Viene buggerato da Berlusconi. Nel 2001 cadrà il suo governo e Berlusconi trionferà nelle urne con la sua Casa delle libertà.
Intanto la montagna della bicamerale aveva partorito solo il topolino, la Riforma del Titolo V della Costituzione, che aprì il varco ad un primo accenno di federalismo. Oggi in tanti, specie a sinistra, incolpano D’Alema di aver aperto la breccia all’autonomia differenziata per staccare Bossi da Berlusconi, cioè per un mero calcolo politicista, peraltro di corto respiro. Gli esponenti della destra aggiungono: ‘E noi saremmo quelli che vogliono spaccare il Paese? ma se siete stati voi a varare la Riforma del Titolo V!’
Non dicono il falso, né i critici della sinistra né la destra. Le cose andarono così. Non tengono però conto, gli uni e gli altri, che la marea montante del separatismo leghista avveniva contestualmente alla guerra dei Balcani. Non era irreale il rischio che la rottura della coscienza unitaria degli Italiani potesse dare adito a violenze molto serie. La Riforma del Titolo V della Costituzione servì a gestire politicamente la spinta separatista, che coinvolgeva ampi strati della popolazione ‘padana’, tendenzialmente maggioritari e ben radicati. Quando, nel 2017, le Regioni Lombardia e Veneto hanno indetto i loro referendum sull’autonomia, la gente è andata a votare e i sì sono stati il 96% in Lombardia ed il 98% in Veneto!
La Legge sull’Autonomia differenziata appena votata dal Parlamento italiano viene dunque da lontano, non nasce come nel bosco un fungo dopo la pioggia. In pratica rimette mano al Titolo V, che differenziava le materie di competenza esclusiva dello Stato, quelle di competenza esclusiva delle Regioni e quelle di ‘competenza concorrente’ Stato-Regioni, per ridimensionare quelle dello Stato centrale a favore delle Regioni, lasciando a quest’ultime, ciascuna per se stessa, la libertà di chiederne l’attribuzione ovvero di optare per lasciarne la gestione allo Stato. Nel primo caso occorrerà la sottoscrizione di un’intesa tra la Regione richiedente la competenza e lo Stato cedente. L’arbitro fischierà l’inizio partita e inevitabilmente si accentuerà la competizione territoriale tra le diverse Regioni.
I rischi per l’unità del Paese ci sono, ma potrebbe anche funzionare, se la partita iniziasse però, come da buon senso, sullo zero a zero. Viceversa oggi le Regioni del Nord, per restare nella metafora calcistica, stanno in vantaggio di tre goal su quelle del Sud. Può cominciare una partita sul tre a zero?
Per questo le Regioni del Sud hanno chiesto che prima vengano riequilibrati i rapporti socioeconomici tra Nord e Sud e che vengano preliminarmente definiti i Lep – Livelli essenziali delle prestazioni – al di sotto dei quali nessuna Regione d’Italia potrà mai scendere. Se ciò avvenisse, dovrebbe essere lo Stato ad intervenire solidalmente per garantirli. E la Legge appena approvata accetta questa impostazione.
La discussione perciò si è spostata sui Lep – i cui contenuti ancora non sono stati precisati – e sulle materie che dovranno essere subordinate ai Lep. Quanto a quest’ultime, su 23 materie per le quali le Regioni possono chiedere di assumerne la competenza esclusiva, la legge prevede che solo 9 siano subordinate alla definizione dei Lep. Per le altre 14 la partita può iniziare dal tre a zero per il Nord.
Ecco le ragioni della tenace opposizione delle minoranze parlamentari e delle Regioni del Sud alla legge appena approvata dalle Camere. Troppa confusione, troppa indeterminatezza. E il sospetto che, dopo 160 anni di sfruttamento delle risorse del Mezzogiorno a vantaggio del Nord, il Governo Meloni voglia ora liberarsi del suo fardello ed abbandonare il Sud a se stesso!